lunedì 26 ottobre 2009

Un commento al mito di Orfeo ed Euridice

COMMENTO
Alla notissima, affascinante e triste storia di Orfeo ed Euridice Ovidio dedica due inizi di libro: il decimo e l’undicesimo. Viene raccontata la morte della sposa, la discesa del cantore negli inferi, il canto che convince il re e la regina dell’Ade a restituire Euridice, alla condizione che egli non la guardi finché non saranno fuori dal mondo sotterraneo, Orfeo non riesce a resistere e si volta a guardare l’amata, così la perse definitivamente. Poi il suo dolore inguaribile gli impedisce di congiungersi ad altre donne, fino che venne ucciso dalle Baccanti e la sua testa fluttuò fino all’isola di Lesbo, dove, poi, storicamente si svilupperà la poesia lirica greca. Per commentare i miri delle Metamorofosi ovidiane è basilare considerare la commistione e l'intreccio di generi presente nei vari momenti della narrazione mitica. Da un'attenta lettura delle storie raccontate da Ovidio notiamo che generi diversi, che in passato venivano tra loro distanziati, vengano uniti assieme. Ai tre generi, per chiamarli con un termine moderno, corrispondono tre stili: quello tragico, aulico, delle scene piene di pathos, quello elegiaco, medio, "comico" (in una dicitura medievale) e quello bucolico. Come si è detto, nella tradizione letteraria i tre stili venivano distanziati e a loro erano dedicate opere di argomento e genere diversi. Ovidio oper un'innovazione profondissima, che "spezza" i vincoli rigidi della retorica classica: in un'unica opera unisce i tre stili. Sarà bello notare che egli utilizza il poema epico, utilizzato per cantare argomenti tragici, aulici, la sua opera principale sta al di sopra di ogni poetica, Ovidio vuole superare ogni limite e vincolo imposto da regole fisse: utilizza il metro dell'epos, ma il modello principale è il poema didascalico alessandrino. E' interessante notare come il nostro autore giochi con la letteratura: unisce alla poetica di ispirazione alessandrina, che rifuggiva l'epos, l'esametro e la forma del poema epico.
Non è facile definire con certezza quale genere letterario sia prevalente. Fin da subito propendiamo a considerare preponderante il genere letterario dell’elegia. Il tema principale dell’episodio è l’amore, che viene privato a causa di una morte accidentale e induce il poeta cantore Orfeo a discendere negli inferi pur di riavere con sé la sua amata. Ma non è un amore tipicamente elegiaco, l’amante non seduce e poi abbandona l’amato per sue ragioni, ma per cause esterne ad esso: la morte, appunto. L’amore che lega Orfeo ed Euridice è un amore coniugale, non una relazione fuori dai vincoli del matrimonio, come spesso era cantata nelle elegie. Tuttavia non vi è amarezza nel ricordo dell’amata, essa non è considerata perfida o infida, ma di lei, in Orfeo, vi è un dolce e malinconico ricordo. Anche il finale lieto del mito (XI vv 63-66) fa pensare un genere letterario non eccessivamente tragico:

“Invenit Eurydicen cupidisque amplectitur ulnis;
hic modo coniunctis spatiantur passibus ambo,
nunc praecedentem sequitur, nunc praevius anteit
Eurydicenque suam iam tuto respicit Orpheus.”

(Vi ritrova Euridice e l’abbraccia desideroso; qui ora congiunti camminano assieme , ora egli segue lei che precede, ora davanti a lei cammina, e ormai senza pensiero si volge Orfeo a guardare la sua Euridice). Ovidio sembra a tratti scherzare con la materia del suo mito. Così, ad esempio, le parole che Orfeo rivolge a Proserpina sembrano essere modellate in un’abile suasoria in cui egli non esita a ricordare agli dei la potenza dell’amore: (“vos quouqe iunxit amor” X 29) per indurli alla restituzione dell’amata. Proprio in questi versi (dal 25 al 29) si concentrano espressioni tipiche del genere elegiaco. Vi è continuo riferimento ad Amore, visto come un dio potente e spietato. L’amante ha voluto sopportare la mancanza della donna amata, ma il dolore ha fatto sì che l’ amore vincesse sul suo animo, spingendolo così a bussare alle porte degli inferi: amor vicit. Tale locuzione ci fa venire in mente la famosissima frase che Gallo recitò nella decima ecloga di Virgilio: “ omnia vincit amor et nos cedamus amori”( Ver. ecl. X 69). Ma, ancora, non vi è amarezza a invocare il nome di Amore, Orfeo si augura che anche negli inferi esso possa agire come fa sulla terra. Dal punto di vista della forma nel verso 26 è interessante notare un particolare: il poeta, nell’ Orco, indica la terra con le stesse parole colle quali i vivi indicano l’aria e il cielo sovrastanti (supera in ora ). All’inizio il nostro poeta ha fatto ricorso all’immagine di un dio: Imeneo (gr. Hyménaios). Egli era il dio degli sponsali e “imeneo” era il canto che a sera accompagnava la sposa a casa dello sposo (Cfr Lucrezio de rerum natura I 97 e Catullo 61). Tale figura potrebbe rimandare ad alcune scene elegiache. La figura di Orfeo è comunque malinconica e in tutta la vicenda si può ravvisare un’elevata tristezza. Tuttavia è scorretto iscrivere tutta la vicenda nei canoni del genere elegiaco: anche se non sono state lanciate maledizioni o non vi sono scene cruente, nel canto di Orfeo e nella narrazione del mito vi sono scene di grande pathos. Il mito si apre con la descrizione di cattivi presagi, infatti, nell’antichità si dava superstiziosamente molto peso ai segnali e ai sogni, nelle occasioni più importanti della vita. Ovidio riferendosi alla fiaccola di Imeneo dice che porterà lacrime, non gioia (“lacrimoso stridula fumo/ usque fuit ) vv 6-7. Ma è nel discorso che Orfeo rivolge a Proserpina e a suo marito che sono raggiunti grandi livelli di tensione emotiva. La preghiera è accorata e il suo fine è, appunto, quello di commuovere gli abitanti degli inferi per acconsentire la restituzione della moglie. Quella tra Orfeo ed Euridice è la storia di un amore profondo e risulterebbe riduttivo cantarlo attraverso il ricorso ad immagini elegiache. Sul finire della sua performance Orfeo innalza il livello del canto rendendolo commuovente e struggente: supplica i regnanti dell’Ade a rinnovare ad Euridice il destino della sua vita troppo presto troncata, l’uso dell’espressione retexite fata (v 31) fa venire in mente l’ufficio delle Parche. Successivamente, si delinea una riflessione sulla morte, dall’amore che vince tutto dei versi precedenti, si passa alla morte, comune destino di ogni essere umano. Orfeo è consapevole che la morte riprenderà la sua amata, ma vuole godere con lei gli anni della gioventù, quindi la chiede in prestito agli abitanti dell’Orco. Ovidio utilizza, infatti, un termine particolare mutuato dal linguaggio giuridico: usus. L’usus è l’usufrutto di cosa, la cui proprietà spetti ad un altro. L’Orco doveva riavere Euridice come proprietà quindi Orfeo non la chiede in dono ma prega soltanto di convivere con lei fino al giorno della sua morte naturale. Nel caso non gli fosse stato reso il suo amore Orfeo avrebbe adottato una soluzione estrema: la morte (“nolle redire mihi leto gaudente duorum” v 39). Il canto di Orfeo ha effetti sorprendenti: tutti gli abitanti degli inferi si fermano e piangono per il racconto del poeta cantore. Tantalo aveva sottratto l’ambrosia agli dei per cui era stato punito a soffrire la fame e la sete: si trovava nell’acqua accanto a un albero di frutti, ma non poteva né mangiare né bere. Issione, per essersi innamorato di Giunone, fu incatenato da Giove a una ruota infuocata che girava, Gli avvoltoi alludono alla condanna di Tizio. Le Belidi o Danaidi erano condannate a portare dell’acqua in delle brocche forate, Sisifo doveva portare verso l’altro un masso che poi dalla vetta rotolava subito giù. Si noti che i primi sono presentatati da Ovidio in terza persona, invece per l’ultimo utilizza l’apostrofe. Si bagnarono, persino, per la prima volta, le guance delle Erinni. Orfeo ottiene così il permesso di riprendersi l’amata e incomincia il cammino verso la terra. Ma, avido di vederla e insieme pauroso di averla persa guarda indietro e infrange il patto che strinse con al regina degli inferi. In questo punto vi è la descrizione della seconda morte di Euridice. Ella cerca di riafferrare l’amato, Ovidio sottolinea l’azione tramite un’abile figura etimologica utilizzando il verbo all’infinito presente di forma attiva e passiva (prendique et prendere certans v 58). Il nostro poeta descrive la perdita dell’amata con dovizia di particolare soffermandosi sul gesto delle braccia che non vanno ad abbracciare niente che l’aria. Allontanandosi sempre di più Euridice dà l’ultimo saluto allo sposo (“supremumque vale” ). L’autore, poi, sottolinea con un intervento diretto, sotto forma di domanda retorica, che si tratta di una storia drammatica, ma di intenso amore coniugale (“non est de coniuge quicquam /questa suo quid enim nisi se quereretur amatam?” vv60-61). Alla fine vi è una similitudine in cui Orfeo è paragonalo a delle persone trasformate in statue di pietra. In preda al dolore e alle lacrime, Orfeo rimane sette giorni alle porte dell’Ade, impossibilitato ad entrare. Egli non si nutre che della mestizia che ha in cor suo. Tutti questi sono elementi ascrivibili al genere tragico. Ma andando a leggere i versi successivi, nei quali si narra di Orfeo che ammalia le genti della terra col suo canto, siamo spettatori di un paesaggio tipicamente bucolico. Il poeta cantore trovandosi in una rada senz’ombra e incominciando a cantare, commosse la natura, e giunsero in gran fretta diversi alberi per proteggerlo dalla calura. Ovidio si sofferma molto sulla descrizione delle piante che ivi giungono. Nel tratteggiare quel sereno locus amoenus Ovidio fa riferimento alla metamorfosi di Attis.
La vicenda viene narrata da Ovidio, quindi vi è un narratore esterno. La narrazione a un certo punto si blocca per lasciar spazio al discorso diretto di Orfeo. Il narratore solo una volta interviene, come già detto, per sottolineare la drammaticità della storia. I personaggi non vengono descritti minuziosamente. Orfeo alla fine viene paragonato a una statua, Euridice non viene nemmeno abbozzata. Vi è però una descrizione leggermente più dettagliata degli abitanti dell’Averno, di loro sono descritte alcune peculiarità. Ciò non si potrebbe dire per quanto riguarda la descrizione del regno degli inferi, che viene tratteggiato con dovizia di particolari. Subito Orfeo dice ai vv 30 -31: “ Per ego haec loca plena timoris,/ per Chaos hoc ingens vastique silentia regni…”. Vi è a livello fonico l’allitterazione della s che dà una sensazione di durezza. Poi ai versi 53-54 è descritto il cammino che percorrono i due amanti per tornare sulla terra: “carpitur adclivis per muta silentia trames, / arduus, obscurus, caligine densus opaca, “. Il percorso è oscuro arduo, pieno di silenzio, e reso ancora più tenebroso da una fitta nebbia. Anche qui possiamo fare delle osservazioni a livello fonico, vi è l’allitterazione della u che conferisce al verso una certa cupezza. Inoltre l’enumerazione con il climax ascendente di aggettivi quasi sottolinea la spaventosa natura del luogo. L’inferno è definito dal poeta inamoenus. A tal proposito potrebbe essere interessante fare un’ analisi etimologica del termine Amoenus. Gli stessi filologi sono in dubbio se far risalire il termine al latino amare, amabilis, o al greco ameion, migliore. L’inferno è, dunque, un luogo dove si è impossibilitati ad amare e quindi si rende giustificabile l’intervento del poeta cantore. Il racconto del mito è dettagliato, la narrazione della vicenda di Orfeo che scende negli inferi è posta ai primi 77 versi del libro decimo, continua poi con una parentesi bucolica dove Orfeo viene consolato da diverse piante e lì incomincia a cantare diversi miti. La vicenda di Orfeo si chiude ai primi 66 versi del libro undecimo.
Il mito di Orfeo godette molta fortuna nella storia della letteratura e non solo. La prima testimonianza letteraria la sia ha nel Simposio di Platone ( 179 D.) secondo cui gli Dei per punire la vitalità di Orfeo gli avevano mostrato solo un fantasma della sposa, senza intenzione di restituirgliela e infine lo avevano fatto uccidere dalle donne. Non sempre la morte del cantore era collegata direttamente con quella della sposa, secondo Eschilo, fu ucciso dalle Menadi perché sostenitore del culto apollineo opposto a quello dionisiaco; secondo Fanocle (fr. 1 Diehl), poeta alessandrino, sarebbe stato ucciso dalle donne perché era diventato misogino e cultore di amori maschili (cfr Ov Met X vv 83-85). Sempre in ambito greco il mito di Orfeo si interseca a quello di Giasone e gli Argonauti. Egli diviene un Argonauta e fu presentato per primo dall’autore cn queste parole: “Primo fra tutti voglio cantare Orfeo, che la musa Callìope, si racconta, partorì presso il monte Pimpleo, unita in amore con il trace Eagro. E dicono che l'armonia del suo canto ammaliasse le dure pietre dei monti e le correnti dei fiumi. E le querce selvagge - a ricordo di quel canto - ancora oggi sulla sponda di Zone in Tracia fioriscono in filari ordinati, perché un tempo, incantate dalla cetra, scesero dalla Pieria in lunghe file.“. E’ interessante, nelle Argonautiche, l’episodio in cui Orfeo cantando con la cetra si sovrappone al canto delle Sirene, tale particolare verrà poi ripreso da Seneca nella Medea, ma questo lo vedremo più avanti. Fu Virgilio nella chiusura delle Georgiche ( IV 453 527) ad immortalare il mito di Orfeo consegnandolo alla letteratura successiva. Per raccontare il mito Virgilio utilizza la tecnica tutta alessandrina dell’epilio ( l’antecedente più prossimo a Virgilio è il Carme 64 di Catullo). L’intero mito, nel quale la figura di Aristeo e di Orfeo si trovano unite, è introdotto nella forma dell’ aiton, per spiegare l’origine di un fenomeno. Virgilio narra che il pastore Aristeo, il cui sciame era stato devastato da una moria, disperato rivolse alla madre, la ninfa Cirene, che a sua volta lo mando nel mare dall’indovino Proteo. Il legame dell’epilio etiologico con la materia didascalica del poema appare tenue. Più verosimilmente l’epilio ha un significato preciso nella struttura del poema: forse funge da sintesi del senso complessivo dell’opera. Su questa linea si pone il filologo Gian Biagio Conte: Orfeo rappresenterebbe un modello esistenziale “contemplativo” legato al canto e all’amore, ormai superato da Virgilio a vantaggio del modello “pratico” rappresentato da Aristeo. La narrazione virgiliana assume una drammaticità intensa, soprattutto nei vv 485 503, che qui citeremo e osserveremo.

“Iamque pedem referens casus evaserat omnes;
redditaque Eurydice superas veniebat ad auras,
pone sequens, namque hanc dederat Proserpina legem,
cum subita incautum dementia cepit amantem,
ignoscenda quidem, scirent si ignoscere manes.
Restitit Eurydicenque suam iam luce sub ipsa
immemor heu! victusque animi respexit. Ibi omnis
effusus labor atque immitis rupta tyranni
foedera, terque fragor stagnis auditus Avernis.
Illa, Quis et me, inquit, miseram et te perdidit, Orpheu,
quis tantus furor? En iterum crudelia retro
Fata vocant, conditque natantia lumina somnus.
Iamque vale: feror ingenti circumdata nocte
invalidasque tibi tendens, heu non tua, palmas!
dixit et ex oculis subito, ceu fumus in auras
commixtus tenues, fugit diversa, neque illum,
prensantem nequiquam umbras et multa volentem
dicere, praeterea vidit, nec portitor Orci
amplius obiectam passus transire paludem.”

Segnalato dal cum inversum al verso 48 si consuma il dramma che segna il momento della massima tensione narrativa: Orfeo colto da incauta dementia si volge indietro e infrange il divieto di Proserpina, Euridice dopo poche parole ddi addiosvanisce ceu fumus in auras (499). Il ritmo della narrazione divine più dattilico, nel descrivere la fuga degli amanti; poi la narrazione rallenta nel momento dell’effrazione fatale di Orfeo (vv490 491) attraverso i verbi allitterati restitit e respexit. Particolarmente patetico è il discorso di Euridice, che culmina nell’ossimoro marcato dall’allitterazione nel verso 498, che prelude allo svanire della ninfa. Rispetto ad Ovidio in virigilio vi è più dovizia dei particolari nel descrivere la personalità di Orfeo: ai suoi occhi il cantore è certamente colpevole, ma degno di compassione. Nel momento centrale della vicenda, nel quale si volge a vedere l’amata il poeta condanna la sua dementia, la follai amorosa, che lo rende incautum, dalla’altra però, è perdonabile ignoscenda. Tuttavia di fronte alla forza delle leggi infere Orfeo è destinato a soccombere e al poeta resta solo il registro elegiaco per accompagnare lo sventurato Orfeo fino alla morte. Virgilio nella descrizione delle anime indugia sui particolari, sottolinea la loro inconsistenza anche con delle metafore. Ma manca a differenza di Ovidio, la lunga perorazione di Orfeo. In Virgilio, però, viene abbozzata la figura di Euridice, alla quale il poeta concede un dialogo. L’Euridice di Virgilio è tipicamente elegiaca e malinconica, fa quasi venire in mente un’Eroina delle Heroides. Bellissime sono le parole con le quali Virgilio descrive la sparizione di Euridice vv 499-500. Ad un personaggio interno alla compagine narrativa delle Argonautiche, Orfeo, il mitico inventore della poesia,7 Valerio Flacco affida il compito di ripercorrere le peregrinazioni di Io,mutata in giovenca per non subire l’ira di Giunone in attesa di essere ritrasformata in ninfa prima dell’apoteosi celeste (Arg. 4, 344-422). Nelle numerose rivisitazioni letterarie della saga di Giasone e compagni, intercorse fra Apollonio Rodio e Valerio Flacco, per noi è questo il primo caso in cui Orfeo si occupi del personaggio di Io. Nel poema ellenistico, ad esempio, questi allevia spesso col canto i travagli dell’equipaggio, senza mai affrontare la vicenda di Inaco e della figlia così come, d’altronde, avverrà nei senecani Hercules furens, Medea nonché nell’Hercules Oetaeus, dove il nostro personaggio compare più volte nei panni di cantore di altri miti.Come già detto al figura di Orfeo è presente anche in Seneca nella Medea (vv. 355-360):
“Quid cum Ausonium dirae pestes
voce canora mare mulcerent,
cum Pieria resonans cithara
Thracius Orpheus solitam cantu
retinere rates paene coegit
Sirena sequi? ”
Comunque, anche Ovidio, fa cantare diversi miti ad Orfeo nel corso del decimo libro delle Metamorfosi, come nelle Argonautiche di Apollonio Rodio.
Ma il mito di Orfeo godette di una grandissima fortuna soprattutto in ambito volgare. In età umanistica attorno al 1480 Angelo Poliziano compone la Fabula d’ Orfeo che risulta essere il primo testo teatrale di argomento profano della nostra letteratura. Orfeo vi appare come simbolo della poesia, di cui viene esaltata la potenza, ma allo stesso tempo sottolineata la fragilità, sempre insidiata dalle forze irrazionali dell’istinto e delle passioni di cui le Baccanti sono simbolo. Non a cao Poliziano scrisse, nella sua attività di filologo, un commento alle Georgiche. La scena finale è di estrema violenza”Euoè! Bacco, Bacco i’ti ringrazio! Per tutto ‘l bosco l’abbiamo stracciato, tal ch’ogni sterpo è del suo sangue sazio. L’abbiamo a membro a membro lacerato in molti pezzi con crudele strazio”. (vv 302 306). Orfeo non sopravvive allo strazio e il suo capo ridotto a trofeo diviene il simbolo della vittoria delle passioni sull’esile sogno umanistico di un’armoniosa arte apollinea. Ma il mito d’Orfeo fu anche l’oggetto della prima opera lirica: “L’Euridice” di Iacopo Peri. Ben più interessante è l’Orfeo di Monteverdi, inscenato presso il palazzo ducale di Mantova il 24 febbraio del 1607 in cui la musica è enfatica e violenta. Il libretto di Alessandro Striggio segue il testo di Poliziano con poche varianti, la più importante delle quali è costituita dal lieto fine, con l’ascesa in cielo di Orfeo, accompagnato da Apollo. La partitura d'orchestra include pezzi per cinque, sette o otto parti, nelle quali gli strumenti sono a volte citati (per esempio: «Questo ritornello fu suonato di dentro da un clavicembalo, duoi chitarroni e duoi violini piccoli alla francese») e monodie a una, due o tre voci con basso non cifrato, nonché cori a cinque voci con basso non cifrato.
Lo stile di canto utilizzato può essere distinto in recitativo, arioso e, nel caso delle arie, strofico. Ma anche Gluck, più di un secolo dopo, nel 1774 a Parigi, compone un’opera incentrata sul mito di Orfeo, che a differenza della prima è più pacata. A tal proposito elenchiamo tutte le edizioni musicali del mito di Orfeo.
Euridice - opera teatrale. Libretto di Ottavio Rinuccini e musica di Iacopo Peri (1600).
L'Orfeo - Opera lirica di Claudio Monteverdi (1607).
Orfeo dolente - Opera musicale di Domenico Belli (1616).
La morte di Orfeo - Tragicommedia pastorale di Stefano Landi (1619).
Orfeus und Euridice - Opera-ballo di Heinrich Schütz (1638).
Orfeo - Opera musicale di Luigi Rossi (1647).
Orfeo - Opera musicale di Jean-Baptiste Lully e Louis Lully (1690).
Orfeo ed Euridice - Opera musicale di Christoph Willibald Gluck (1762).
Orfeo ed Euridice - Ballo di Florian Johann Deller (1763).
Orfeo ed Euridice - Opera lirica di Johann Gottlieb Naumann (1786).
L'anima del filosofo ossia Orfeo ed Euridice - Opera musicale di Franz Joseph Haydn (1791).
Orpheus - Poema sinfonico di Franz Liszt (1853-54).
Orfeo all'inferno - Operetta di Jacques Offenbach (1858).
Orfeo - Mimodramma di Roger Ducasse (1913).
Orpheus und Eurydike - Opera lirica di Ernst Krenek (1926).
Orpheus - Balletto di Igor Stravinskij (1947).
Orfeu da Conceiçāo - Dramma musicale di Vinicius de Moraes (1947).
Orfeo 9 - Opera rock di Tito Schipa Jr. (1970).
Eridice Roberto Vecchioni (1993).
(Da wikipedia)
Orfeo a Fumetti - Opera da camera di Filippo del Corno (2001).
Ma il il mito di Orfeo ha affascinato anche autori moderni come Rainer Maria Rilke ( 1875-1926) autore di alcuni Sonetti ad Orfeo e del poemetto Orfeo-Euridice-Ermete. In esso Euridice appare irrimediabilmente segnata dalla morte e disperato risulta essere il tentativo di Orfeo di riportarla in vita. La poesia riproduce la regressione-fusione della donna verso la morte, ineluttabile ma intrisa di profonda e mistica dolcezza: “ La tanto amata. Ma ella veniva a mano di quel dio, dalle lunghe funebri bende il passo costretto, incerta molle e paziente. In sé racchiusa come alta speranza dimentica dell’uomo che avanza e del cammino che risale al mondo. Come un frutto di buio e di dolcezza ell’era colma della sua gran morte, morte sì nuova ch’ella si smarriva […] Sciolta era ormai come una lunga chioma, abbandonata come pioggia in terra, come provvista in cento parti sparta. Ell’era già radice”. Rilke, nei Sonetti ad Orfeo, risponde alla caducità, alla morte come dato ineluttabile dell'esistenza con un'accettazione totale dell'esistenza che richiama Nietzsche. Non a caso infatti i Sonetti sono dedicati a Orfeo, altro nome di Dioniso, il Dio che per Nietzsche rappresentava il simbolo del "sì alla vita", di chi accetta l'esistenza in toto, con il suo carico di dolore. La riflessione sulla morte domina anche la rilettura offerta da Cesare Pavese nel brano intitolato (ironicamente) l’inconsolabile nei Dialoghi con Leucò (1947). Orfeo dialogando con una Baccante rievoca la propria avventura negli inferi. Il tentativo che intende operare Pavese in quest’opera è quello della ricerca, o ancor meglio della riscoperta di quel sostrato culturale comune, irrinunciabile e costitutivo che è il mito. Un mito che, seppur storicamente proprio di un'epoca ormai tramontata (quella greca), ci appartiene ancora in maniera viscerale nella misura in cui sublima ed eternizza le angosce e le esperienze più intime dell’uomo, antico e moderno. Ogni racconto ha come interlocutori due personaggi presi dalla mitologia greca, (rivista attraverso l'etnologia, il pensiero di Freud e l'esistenzialismo), dei quali lo stesso Pavese ne definisce le componenti e le relazioni che si instaurano tra i vari temi. Qui abbiamo citato dei passi scelti dal sopraccitato dialogo: “E' andata così. Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre. Erano già lontani Cocito, lo Stige, la barca, i lamenti. S'intravvedeva sulle foglie il barlume del cielo. Mi sentivo alle spalle il fruscìo del suo passo. Ma io ero ancora laggiù e avevo addosso quel freddo. Pensavo che un giorno avrei dovuto tornarci, che ciò ch'è stato sarà ancora. Pensavo alla vita con lei, com'era prima; che un'altra volta sarebbe finita. Ciò ch'è stato sarà. Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi "Sia finita" e mi voltai. Euridice scomparve come si spegne una candela. Sentii soltanto un cigolìo, come d'un topo che si salva.” La catabasi di Orfeo è motivata dalla ricerca, non tanto dell’amata quanto del proprio passato e del senso della propria esistenza ( qui, forse, ci viene in mente il tema de La luna e i falò). “Orfeo: Tu dici che sei come un uomo. Sappi dunque che un uomo non sa che farsi della morte. L'Euridice che ho pianto era una stagione della vita. Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore. Cercavo un passato che Euridice non sa. L'ho capito tra i morti mentre cantavo il mio canto. Ho visto le ombre irrigidirsi e guardar vuoto, i lamenti cessare, Persefòne nascondersi il volto, lo stesso tenebroso-impassibile, Ade, protendersi come un mortale e ascoltare. Ho capito che i morti non sono più nulla.
Bacca: Il dolore ti ha stravolto, Orfeo. Chi non rivorrebbe il passato? Euridice era quasi rinata.”
“Orfeo: Tutte le volte che s'invoca un dio si conosce la morte. E si scende nell'Ade a strappare qualcosa, a violare un destino. Non si vince la notte, e si perde la luce. Ci si dibatte come ossessi.”
Vediamo che il mito di Orfeo ed Euridice ha molte tangenze interessanti con il racconto di Italo Calvino: “ Senza Colori” in Cosmicomiche. Ci fu un tempo sulla Terra in cui non c’erano i colori, e a causa della luce ultravioletta la Terra era quasi spopolata: capitava di vagare per miglia e miglia in viaggi di molti mesi senza incontrare anima viva. Inoltre tutto era grigio, non esistevano suoni e la temperatura aveva un’altissima escursione. Un giorno però Qfwfq incontrò Ayl, una bellissima ragazza. O almeno così sembrava, perché si distingueva veramente poco. Iniziarono le conversazioni, ma erano decisamente vuote di argomenti poiché erano le prime sulla Terra. Ma se Qfwfq amava le cose lucenti e diverse dal solito opaco, ad Ayl piacevano solo le cose opache e monotone tipiche della Terra. In quel periodo Qfwfq si accorse anche che sulla Terra stava salendo a vista d’occhio una nebbiolina, che in poco tempo ricoprì tutto il pianeta. Un giorno avvenne il grande cambiamento: si aprì un enorme crepaccio nel terreno dal quale uscirono gas e acqua, e poi apparvero i colori. Ayl però, alla quale non piaceva più il mondo di adesso, si buttò nel crepaccio e si nascose sottoterra. Qfwfq andò a cercarla, e quando la trovò dovette faticare molto per convincerla a tornare in superficie, assicurandole che tutto era tornato come prima. Quando però Ayl si accorse dell’inganno si spaventò e si ributtò nel crepaccio, che in quel momento si richiuse. Qfwfq non rivide più Ayl, che restò per sempre nelle viscere della Terra.
Dino Buzzati trasse ispirazione al mito in Poema a fumetti.
In chiusura a questo lavoro vorrei citare le versioni cinematografiche del mito di Orfeo:
Orfeo negro , di Marcel Camus; dal dramma di Vinicius de Moraes.
Le sang d'un poète, mediometraggio (1930), di Jean Cocteau
Orfeo (Orphée) (1949), di Jean Cocteau
Le Testament d'Orphée, ou ne me demandez pas pourquoi! (1960), di Jean Cocteau

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