domenica 20 giugno 2010

immagini della noia

Per i filosofi del giardino, come per tutte le scuola dell’epoca ellenistica, l’ambito di maggior interesse era l’etica e tutte le altre branche del sapere erano in funzione di essa. Nel clima di insicurezza di quell’epoca di sconvolgimenti politici e sociali alla filosofia si chiedono sostanzialmente due cose: una visione unitaria e complessiva del mondo e un “supplemento d’animo”, ossia una parola di saggezza e serenità capace di indirizzare la vita quotidiana. Il fine massimo da raggiungere era, dunque, la serenità dell’animo, che si poteva raggiungere solo attraverso la saggezza. La filosofia così divenne una sorta di medicina per l’anima, vedremo a questo proposito un passo di Lucrezio, in grado di indirizzare gli uomini verso la felicità. La via che propone l’epicureismo è totalmente terrena: la felicità consiste nel piacere, “ il piacere è il principio e il fine della vita beata” sostiene Epicuro (Diogene Laerzio X 149). Il piacere è il criterio con il quale valutiamo ciò che è bene e ciò che è male. Ma vi sono due tipi di piaceri: il piacere stabile (catastematico), che consiste nella mancanza di dolore, e il piacere in movimento, che consiste nella gioia e nella letizia. La felicità consiste soltanto nel piacere stabile o negativo, nel non soffrire e nel non agitarsi, ed è quindi definita ἀταραξία (atarassia da α + ταραξις). Letteralmente "assenza d'agitazione" e ἀπονία, “mancanza di dolore nel corpo”. Il significato di questi due termini oscilla tra la temporanea liberazione dal dolore del bisogno e l’assoluta mancanza di dolore. Questa carattere negativo del piacere impone la limitazione dei bisogni: Epicuro distingue tra i bisogni naturali e quelli vani; dei bisogni naturali alcuni sono necessari alla sopravvivenza ( ad esempio il mangiare), altri no ( il maniare troppo): Solo i desideri naturali e necessari vanno appagati, gli altri vanno abbandonati e rimossi, poiché il loro desiderio procurrebbe nell’animo turbamento e dolore. Alla saggezza è dovuto il calcolo dei piaceri, la scelta, la limitazione dei bisogni e quindi il raggiungimento dell’atarassia e dell’aponia. E’ chiaro che il bene è ristretto all’ambito del piacere sensibile e che il piacere spirituale è ricondotto allo stesso piacere sensibile. Dunque sono ben poche le cose che l’uomo necessita per essere felice, tutto il resto: il lusso i vani piaceri, portano solo dole. Colui il quale ha accumulato per tutta la vita ricchezze, case, denaro, è colpito da un’insaziabile noia, da un’esigenza di colmare il vuoto che ha dentro l’anima. Per questa ragiune, non avendo raggiunto la serenità, vive uan vita senza senso non degna. Qui ritorniamo al filo conduttore di questa sezione, al tema esposto con le liriche greche, ma questo tema risulta essere visto da Lucrezio in modo molto più razionale. Lucrezio da buon maestro cerca di dare un’indicazione al suo lettore per raggiungere la vera felicità. Nel libro III del De rerum natura Lucrezio insiste sulla natura dell’anima, legata indissolubilmente al crpo materiale, e rivolge la sua attenzione sulla riflessione riguardo la morte. Molti critici, tra cui Carlo Giussani, considerano centrale il libro III nell’ambito del poema poiché rivolto a fugare la paura dell’aldilà la quale impedisce il raggiungimento della voluptas il piacere. Nel finale del libro lucrezio si dedica a chiarire le ragioni dell’inquietudine che grava sulla vita umana. Gli uomini avvertono il peso che opprime il loro animo e, ignorandone, la causa, vivono inquieti spostandosi continuamente, senza riuscire a liberarsi dall’oppressione, poiché cercano invano di sfuggire a se stessi. Se conoscessero la causa del loro male si dedicherebbero solo allo studio della filosofia e a chiedersi cosa aspetti loro dopo la morte. Il canto della contemplazione della morte si conclude con il canto della finitezza delal vita, nel discorso di Lucrezio non si menziona la voluptas, vi domina l’amaro di una realtà priva di illusioni, probabilmente, non a caso, l’autore aprirà il IV libro con la trionnfante e gioisa ripetizione ( I 926-950) del suo programma poetico, incentrato sulla metafora del miele, che deve fluire abbondantemente per celare l’amara medicina. Il taedium (la « tetra noia » per dirla come il Parini), la levitas (la morbosa inconstanza), la commutatio loci ( la smania di cambiare luogo), sono mali tipici dell’ignorante e della folla privi dell’ ἀταραξία del sapines epicureo.

Si possent homines, proinde ac sentire videntur
pondus inesse animo, quod se gravitate fatiget,
e quibus id fiat causis quoque noscere et unde
tanta mali tam quam moles in pectore constet,
haut ita vitam agerent, ut nunc plerumque videmus
quid sibi quisque velit nescire et quaerere semper,
commutare locum, quasi onus deponere possit.
exit saepe foras magnis ex aedibus ille,
esse domi quem pertaesumst, subitoque ,
quippe foris nihilo melius qui sentiat esse.
currit agens mannos ad villam praecipitanter
auxilium tectis quasi ferre ardentibus instans;
oscitat extemplo, tetigit cum limina villae,
aut abit in somnum gravis atque oblivia quaerit,
aut etiam properans urbem petit atque revisit.
hoc se quisque modo fugit, at quem scilicet, ut fit,
effugere haut potis est: ingratius haeret et odit
propterea, morbi quia causam non tenet aeger;
quam bene si videat, iam rebus quisque relictis
naturam primum studeat cognoscere rerum,
temporis aeterni quoniam, non unius horae,
ambigitur status, in quo sit mortalibus omnis
aetas, post mortem quae restat cumque manenda.
Denique tanto opere in dubiis trepidare periclis
quae mala nos subigit vitai tanta cupido?
certe equidem finis vitae mortalibus adstat
nec devitari letum pote, quin obeamus.
praeterea versamur ibidem atque insumus usque
nec nova vivendo procuditur ulla voluptas;
sed dum abest quod avemus, id exsuperare videtur
cetera; post aliud, cum contigit illud, avemus
et sitis aequa tenet vitai semper hiantis.
posteraque in dubiost fortunam quam vehat aetas,
quidve ferat nobis casus quive exitus instet.
nec prorsum vitam ducendo demimus hilum
tempore de mortis nec delibare valemus,
quo minus esse diu possimus forte perempti.
proinde licet quot vis vivendo condere saecla,
mors aeterna tamen nihilo minus illa manebit,
nec minus ille diu iam non erit, ex hodierno
lumine qui finem vitai fecit, et ille,
mensibus atque annis qui multis occidit ante.
(Lucrezio De rerum natura III 1053-1099)

Notiamo già nelle prime righe dell’estratto un’antitesi tra videntur (è un verbo chiave e presuppone la conoscenza coi sensi) e noscere. La protasi dell’irrealtà sembra rilevare il dato di fatto che il noscere è diverso dal sentire umano e attesta la condizione di coloro che non vivono per la saggezza e non vogliono conoscere la natura delle cose e in virtù di ciò vivono in un perenne stato di angoscia. Lucrezio in questo caso, da buon scienziato, osserva un fenomeno: l’inquietudine degli uomini, ne cerca le cause e i principidi spiegazione. Egli le rintraccia nella superstizione e nella paura per la morte. Oltre a cercare le cause, il nostro autore trova una soluzione al senso di ansietà degli uomini. L’uomo non conosce l’oggetto del suo volere, cerca qualcosa in più al di fuori di esso, ma non riesce ad afferrarlo. Così si dedicano a una moltitudine di attività che possano far dimenticar loro il senso di inquietudine, la paura della morte. Ma la morte non è nulla per l’uomo: “Nil igitur mors est ad nos neque pertinet hilum” (De rerum natura III 830), poiché gli atomi che compono i corpi sono costretti ad aggregarsi e a disgregarsi continuamente: nulla nasce dal nulla, nulla ritorna al nulla. Il brano, molto incalzante, è caratterizzato da una densa quantità di verbi che starebbero a sottolienare l’affannoso movimento di colui che viaggia e non ha pace. La descrizione è sempre più vivace nei particolari realisticidella corsa affannosa: sbadigli, sonno per dimenticare, anche ritorno in città. In particolare gravis e revisit esprimono lo stato d’animo del ricco accasciato dal torpore della noia o freneticamente ansioso di cambiare luogo. Da notare l’accortissima collocazione dei termini che riassumono i fondamenti dottrinali del verbo di Epicuro e l’essenza dello stesso poema lucreziano (studeat, cognoscere v. 1072) e l’accostamento dell’avverbio primum ( che indica la preminenza assoluta dello studio scientifico della natura su ogni altro interesse filosofico) ai termini più concettualmente significativi: “naturam rerum”. Per Lucrezio è fondamentale non preoccuparsi di come trascorrere le ore della vita, ma cercare di sapere quale eventuale esistenza ci attende dopo la morte. Questo passo sembra spesso agli studiosi poco coerente con il pensiero epicureo , perché pare avanzare un’ipotesi di una vita dopo la morte, già ampiamente negata nel corso del libro III. In realtà Lucrezio non si contraddice e tiene a sottolienare la vanità delle occupazioni cui si dedica l’uomo annoiato, l’importanza dello studio filosofico, che verte sulla problematica dell’eternità. Naturalmente la ricerca filosofica condotta sulle orme di Epicuro porterà a negare che una qualsisi vita attenderà gli uomini dopo la morte. La chiusa del libro è il trionfo del pessimismo lucreziano la mala cupido vitae, la brama ardente di vivere, non solo non giova ad evitare la morte (nec devitari letum) ma neppure ad aggiungere nuovi piaceri (nec nova vivendo procluditur ulla voluptas) né a sottrasi un solo istante dall’inevitabile fine: la vita ha un termine naturalmente fissato. Questa brama di vivere, che istintivamente fa pensare alla volontà di vivere di Schopenhauer, ci schiaccia e ci impedisce il raggiungimento di una serena saggezza. Nulla cambia nella natura, siamo sempre in balia dei nostri interessi contingenti, le misere menti degli uomini si dimenano continuamente senza scopo cercando di cambiare qualcosa che non può essere cambiato: la legge materiale della natura è immutabile. Essi vagano senza meta perdendo di vista l’obiettivo principale della vita: la saggezza, ma dandosi ai piaceri non necessari. Tali oggetti non potranno mai colmare il vuoto poiché “sed dum abest quod avemus, id exsuperare videtur /cetera; post aliud, cum contigit illud, avemus / et sitis aequa tenet vitai semper hiantis” queste parole sembrano anticipare le drammatiche pagine di Leopardi e di Schopenhauer. Il canto si chiude con un climax ascendente: gli ultimi versi suonano quasi come un trionfo della morte. La nostra vita è finita ed è determinata dal caso, non possiamo sottrarle nemmeno un momento, sarebbe totalmente inutile. Il saggio, invece, non ha bisogno di “scalfire il tempo della morte” poiché è giunto alla consapevolezza che la morte non è nulla ed inutile cambiare continuamente luoghi per obliare la sua angoscia. Qui si apre un dibattito che ha occupato i principali interpreti di Lucrezio: il presunto pessimismo. Sembra strano, che Lucrezio, cantore dell’epicureismo, di una dottrina tendenzialmente ottimistica, presenti spunti pessimistici. Ettore Bignone (in Lucrezio come interprete della filosofia di Epicuro) e Adelmo Barigazzi ( in Lucrezio. La vita e la morte nell’universo. Paravia Torino 1974) sostengono la tesi dell’ottimismo e quindi della piena adesione alla scuola epicurea. Certamente nel poema vi sono cupe immagini di morte e dolore, sostengono quegli studiosi, ma esse devono essere considerate alla luce della dottrina epicurea. Tramite la conoscenza delle leggi della natura e, quindi, anche dei lati negativi di essa si può raggiungere la felicità. Sostenitore della tesi opposta è Luciano Perelli ( in Lucrezio poeta dell’angoscia), nel suo saggio si configura un’immagine di un Lucrezio dubbioso e afflitto dal dubbio che non ha più fiducia nella dottrina epicurea. C’è comunque da notare che Perelli ha utilizzato in maniera massiccia l’analisi psicanalitica che è certamente poco valida nell’analisi di un testo antico. La tesi dell’ottimismo lucreziano trova indubbiamente un elemento di forza, poiché il fine della scuola epicurea starebbe nel liberare l’uomo dall’angoscia, è più persuasivo riconoscere l’esistenza del male nel mondo, ma, al contempo, nutrire la fiducia che grazie alla ragione l’uomo possa giungere alla felicità. La giusta via di mediazione ci è data da Gian Biagio Conte:” i luoghi più eloquenti dell’opera sono le ferite che il conflitto ha lasciato dietro di sé nella dottrina: sotto un certo aspetto le fratture di un pensiero sono più essenziali della continuità che salvaguarda la coerenza logica. […] Di qui l’adito alla polemica contro le illusioni, tanto aspramente avversate perché tanto faticoso è stato liberarsene” (op. cit.). Riconoscere il male e la morte come parti del reale non sono l’indizio di un carattere esistenzialisticamente angosciato, ma segno di una capacità di abbracciare la vita nei suoi aspetti di luce e di ombra.
D’altronde il IV libro si apre con l’immagine luminosa del topos miele-poesia quasi a stemperare i toni cupi e drammatici della chiusa del libro III. Tutti i libri si aprono con immagini splendenti e luminose: il primo con l’inno a venere e l’inno ad Epicuro salvatore degli uomini, il secondo si apre con un’esaltazione del saggio epicureo, il terzo il quinto e il sesto con degli elogi ad Epicuro.
Lucrezio, come accennato, ci dà, oltre alla descrizione di una stirpe umana cieca che non sa raggiungere la vera felicità, il ritratto del saggio beato. Il proemio del libro II prospetta il collegamento con l’etica saldando la conoscenza della natura alla conquista della felicità. In esso sono celebrati i principi fondamentali dell’etica epicurea dall’identificazione del piacere stabile con l’aponìa e con l’ataraxìa all’esortazione a godere le gioie di una vita ritirata (láthe biôsas). Fin dai tempi di Voltaire in questa pagina di Lucrezio è stata ravvisata una sorta di egoistico compiacimento nel sentirsi libero dai pregiudizi e dalle passioni, infatti questo proemio era stato intitolato “rapsodia per una serenità egoistica” . L’ideale di vita che vi traspare viene contrapposto ai modelli negativi della vita associata della continua ricerca di ricchezze e potere militare, da Lucrezio stigmatizzati anche in altri luoghi del poema (cfr. 3, 59 sgg. e 995 sgg.) e dopo di lui sviluppati da Virgilio nel finale del libro II delle Georgiche.

Suave, mari magno turbantibus aequora ventis
e terra magnum alterius spectare laborem;
non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,
sed quibus ipse malis careas quia cernere suave est.
suave etiam belli certamina magna tueri
per campos instructa tua sine parte pericli;
sed nihil dulcius est, bene quam munita tenere
edita doctrina sapientum templa serena,
despicere unde queas alios passimque videre
errare atque viam palantis quaerere vitae,
certare ingenio, contendere nobilitate,
noctes atque dies niti praestante labore
ad summas emergere opes rerumque potiri.
o miseras hominum mentis, o pectora caeca!
qualibus in tenebris vitae quantisque periclis
degitur hoc aevi quod cumquest! nonne videre
nihil aliud sibi naturam latrare, nisi ut qui
corpore seiunctus dolor absit, mente fruatur
iucundo sensu cura semota metuque?
ergo corpoream ad naturam pauca videmus
esse opus omnino: quae demant cumque dolorem,
delicias quoque uti multas substernere possint
gratius interdum, neque natura ipsa requirit,
si non aurea sunt iuvenum simulacra per aedes
lampadas igniferas manibus retinentia dextris,
lumina nocturnis epulis ut suppeditentur,
nec domus argento fulget auroque renidet
nec citharae reboant laqueata aurataque templa,
cum tamen inter se prostrati in gramine molli
propter aquae rivum sub ramis arboris altae
non magnis opibus iucunde corpora curant,
praesertim cum tempestas adridet et anni
tempora conspergunt viridantis floribus herbas.
nec calidae citius decedunt corpore febres,
textilibus si in picturis ostroque rubenti
iacteris, quam si in plebeia veste cubandum est.
quapropter quoniam nihil nostro in corpore gazae
proficiunt neque nobilitas nec gloria regni,
quod super est, animo quoque nil prodesse putandum;
si non forte tuas legiones per loca campi
fervere cum videas belli simulacra cientis,
subsidiis magnis et ecum vi constabilitas,
ornatas armis statuas pariterque animatas,
his tibi tum rebus timefactae religiones
effugiunt animo pavidae mortisque timores
tum vacuum pectus lincunt curaque solutum.
quod si ridicula haec ludibriaque esse videmus,
re veraque metus hominum curaeque sequaces
nec metuunt sonitus armorum nec fera tela
audacterque inter reges rerumque potentis
versantur neque fulgorem reverentur ab auro
nec clarum vestis splendorem purpureai,
quid dubitas quin omnis sit haec rationis potestas,
omnis cum in tenebris praesertim vita laboret?
nam vel uti pueri trepidant atque omnia caecis
in tenebris metuunt, sic nos in luce timemus
inter dum, nihilo quae sunt metuenda magis quam
quae pueri in tenebris pavitant finguntque futura.
hunc igitur terrorem animi tenebrasque necessest
non radii solis neque lucida tela diei
discutiant, sed naturae species ratioque.
(Lucrezio De rerum natura II 1-61)

Il saggio assapora la felicità stando tranquillo a contemplare l’affanno altrui. In questo modo, infatti, acquista la percezione del piacere, che consiste nella mancanza di dolore e turbamento. L’inizio del brano è lento, quasi affannoso, con la triplice anafora di suave, poi sempre più mosso e concitato fino che il poeta si lascia coinvolgere dal compianto per la miseria umana. Enjambements, esclamazioni, interrogazioni e riprese accentuano l’impatto emotivo del testo, stemprata, poi, in una ricca serie di immagini Il lessico nettamente positivo ( suave, dulcius, edita, serena, iucundu sensu, Gratis, in luce ) che connota la felicità del saggio, si contrappone ad espressioni negative ( tenebris, errare, mortisque timores, religiones, terrorem animi, metus hominum cauraeque ). Nell’incipit del brano si intrecciano numerosi riferimenti colti: l’immagine potente dello scampato alla tempesta, il quale dalla terraferma contempla, compiaciuto, le traversia del naufrago, era diffusa nella letteratura classica: Sofocle fr. 579N.; Archiloco fr. 43 K.; Cicerone Att II 7,4; a cui si possono aggiungere i versi 902-911 del terzo stasimo delle Baccanti di Euripide, e Orazio Epistola I 11,10. L’espressione non è da intendere nel senso che il saggio provi piacere di fronte al disagio altrui, ma che, assistendo da lontano, dall’alto della ragione, al meschino affannarsi degli altri uomini si sente libero dai mali che spingono ad affrontare rischi e pericoli di ogni genere e assapora la vera felicità, che consiste nella mancanza di dolore. La scrittura di Lucrezio continua in un incessante intreccio di parole che tendono a sottolineare l’altezza dello stile: suave è replicato con variatio e climax, il lessico è ricercato ed elegante, in certare ingenio e contendere nobilitate l’allitterazione degli infiniti e la cesura del verso accentuano il parallelismo dei due cola. Già nei versi 8-13 incominciano ad accentuarsi le differenze tra colui il quale risiede sui Templa serena dei saggi, e colui il quae erra senza scopo nel mondo, senza trovare un fine, ma si sforza per raggiungere una felicità che risulterà essere effimera. Questi versi dal forte impatto emotivo (despicere unde il verbo dà comunque l’idea dell’osservare dall’alto verso il basso… errare atuqe viam palantis quaerere vitae… certare ingenio…contendere nobilitate… rerumque potiri”) ci ricordano quelli del brano precedentemente proposto dove erano elencate con un ritmo incalzante tutte le varie azioni che il ricco annoiato compiva per a fuggire al malessere della vita. In questi versi, lo si vedrà più avanti, viene data un’indicazione chiara e esemplificata per raggiungere la vera serenità. A questa parte luminosa e solare si contrappone una seconda parte buia e tenebrosa: o miseras hominum mentis, o pectora caeca (v14), l’esclamazione è rimarcata dal chiasmo degli accusativi che pone in rilievo gli attributi, dalla forte cesura eftemimera, dalle evidenti assonanze della della m e della c, sa notarsi anche l’evidente metonimia di gusto virgiliano. L’impeto di questi versi risuona anche nell’ XI canto del Paradiso dantesco: “oh insensata cura de’mortali, / quanto son difettivi sillogismi / quei che ti fanno in basso batter l’ali!” (vv.1-3). Vi è poi un crescendo di drammaticità, l’ interrogativa retorica “nonne videre…” (v.16), nella forma del cosiddetto infinitum indignationis rende più patetica l’argomentazione, che trova il culmine al verso 17: “nil aliud sibi naturam latrare…”. La natura grida imperiosamente, animalescamente, il verbo latrare, forse connesso etimologicamente con lamentum, inserisce l’analogia nell’uso letterario che trova un suo precedente in Ennio (animusque in pecora latrat v.481 Skutsch) e in Omero (XX 13), riferito al cuore che latra dal dentro (come in Ennio): ὕστατα καὶ πύματα· κραδίη δέ οἱ ἔνδον ὑλάκτει… (..per l’ultima volta, il suo cuore di dentro latrava, di cui il verbo ὑλάκτει indica proprio il latrare dei cani). Ma l’immagine della natura che grida imperiosamente le sue richieste è anche in Epicuro, fr. 22 Arrighetti “ Non considerare innaturale, che, quando grida la carne anche l’anima gridi. Il grido della carne è: non aver fame, non aver sete e non aver freddo”. L’mmagine ha una forte intensità proprio per richiamare l’attenzione sui due concetti basilari della morale epicurea, che verranno poi enunciati: l’assenza di dolore e l’assenza di turbamento. La soddisfazione dei desideri del corpo richiede assai poco: non sono necessari banchetti in ambienti sfarzosi, infatti il contatto con la natura e l’amici basta per raggiungere la felicità, senza indulgere in un lusso fine a se stesso. Secondo la classificazione epicurea, quelli che tolgono il dolore sono i piaceri naturali e necessari. La soddisfazione dei desideri naturali e necessari non solo toglie il dolore, ma assicura anche molti piaceri, come secondo l’esempio, il mangiare e il bere in compagnia. Già il verbo substernere (v.22) è di per se eloquente (letteralmente “stendere sotto”) indica l’apporto di piacere implicito legato ai bisogni essenziali dell’uomo. Ai pochi beni necessari Lucrezio accosta i piaceri superflui , di cui quelli non naturali (vv24-28), che sono nocivi e quelli necessari e naturali, ammessi dalla dottrina epicurea. Lucrezio, riprendendo dei versi omerici, evoca il clima inutilmente sfarzoso delle ville romane. Le statue di giovani reggenti fiaccole compaiono nella descrizione di Omero della villa di Alcinoo:



χρύσειοι δ' ἄρα κοῦροι ἐϋδμήτων ἐπὶ βωμῶν
ἕστασαν αἰθομένας δαΐδας μετὰ χερσὶν ἔχοντες,
φαίνοντες νύκτας κατὰ δώματα δαιτυμόνεσσι.
(Omero, Odissea VII 100-102)

Successivamente in questi versi Lucrezio delinea un quadro paesaggistico ameno, idilliaco, che sarà l’unico modello latino della poesia bucolico pastorale virgiliana. Al ridente quadro dei piaceri naturali, Lucrezio oppone una nuova visone antitetica: i malanni non vengono allontanati più rapidamente da un tenore di vita lussuoso, che da uno modesto. Tutti mali che affliggono gli uomini: le superstizioni religiose , non possono essere fugati attraverso inutili prove di forza. Infatti Lucrezio tende a sottolinearlo utilizzando clausole ironiche come “si non forte” al verso 40. Da notarsi, comunque il clima tutto romano della scena delle esercitazioni militari, forse uno dei pochi collegamenti che il nostro autore fa con il suo periodo storico. Qual è dunque la via di fuga a questi mali? Lo studio appassionato della natura e dei suoi meccanismi. In questo caso ci allacciamo al testo del libro III, infatti, la soluzione che viene esposta è sostanzialmente la stessa: lo studio della natura. La ricchezza e il potere ( nel libro III erano descritte delle azioni di un ricco nobile annoiato) non riescono a prevalere sulle angosce e sulle paure che affliggono gli uomini. Lutezio nell’argomentare procede per espressioni binarie (es. ridicula… ludibriaque), ma la ridondanza qui ha la funzione di instaurare un rapporto tra le paure e le preoccupazioni quasi personificate. Il brano va via via concludendosi con una metafora colta ripresa dal Fedone (77) di Platone, l’espressione dei fanciulli che temono le tenebre interpreta suggestivamente e allusivamente il contrasto tra l’ignoranza del Vero e la dottrina del filosofo. Gli uomini, a differenza dei bambini, hanno paura anche alla luce del sole perché essa non riesce a dissipare le tenebre dell’intelletto. Come usuale in Lucrezio l’argomentazione si conclude con una formula quasi con degli epifonemi. In questo caso la chiusura è del tutto simile a quella del libro III ed insiste sul fatto, ripreso in tutto il poema, che il timor e l’horror gravano sulla vita degli uomini come conseguenza della paura degli dei.
Ritornando al tema della commutatio loci, esso viene ripreso largamente da molti autori: in ambito latino ha avuto un discreto successo. Colui che ha continuato a trattare questo argomento fu l’epicureo Orazio nelle Epistole (I 8; I 11). Nell’Epistola I 8, il poeta appare affetto da uno stato di depressione, da una sorta di insoddisfazione mista a funebre malinconia che egli chiama funestus vernus e che molti aspetti sembra simile ad alcuni stati nevrotici.

Si quaeret quid agam, dic multa et pulchra minantem
vivere nec recte nec suaviter, haud quia grando
contunderit vitis oleamque momorderit aestus,
nec quia longinquis armentum aegrotet in agris,
sed quia mente minus validus quam corpore toto
nil audire velim, nil discere, quod levet aegrum,
fidis offendar medicis, irascar amicis,
cur me funesto properent arcere veterno,
quae nocuere sequar, fugiam quae profore credam,
Romae Tibur amem, ventosus Tibure Romam.
(Orazio, Epistulae I 8 vv. 3-12)
L’insoddisfazione del poeta ha una componente esistenziale che il supporto della filosofia non è stato in grado di vincere, qui notiamo una differenza con Lucrezio. Se ne accorsero già i commentatori antichi che definirono il poeta come melanchonicus, cioè affetto da una sorta di depressione ansiosa. Orazio, non riesce a mettere in pratica i concetti della dottrina epicurea e risulta meno “solido” di Lucrezio. Egli non riesce a curare il suo stato di malattia, fugge senza trovare pace e oblia tutti i mali. Il poeta non trova requie in alcun luogo e sprofonda in uno stato di ansiosa inquietudine e di accidiosa scontentezza (assai simile a quella del Petrarca nel Secretum).
Il tema dell’inutilità del viaggio ritorna nell’ Epistola 11 del primo libro, dove Orazio ritorva una felice soluzione lirica che riprende i concetti base della morale oraziana, segnati da quella nota di dolorosa malinconia che caratterizza la stagione dell’Orazio maturo. La strenua inertia diviene tema di canto fornendo i parametri morali entro i quali si inquadra la smania di viaggiare.

Tu quamcumque deus tibi fortunaverit horam
grata sume manu neu dulcia differ in annum,
ut quocumque loco fueris, vixisse libenter
tu dicas: nam si ratio et prudentia curas,
non locus effusi late maris arbiter aufert,
caelum, non animum mutant, qui trans mare currunt.
Strenua nos exercet inertia: navibus atque
quadrigis petimus bene vivere. Quod petis, hic est,
est Ulubris, animus si te non deficit aequus.
(Orazio, Epistulae I 11 vv 22-30)

Caelum, non animum mutant, qui trans mare currunt è una sentenza incisivache riassume il conflitto interiore di tutta una vita dedita alla ricerca della perfezione morale. Come nell’Epistola precendente il poeta vorrebbe distinguersi da coloro che viaggiano per dimenticare il loro male, ma non ci riesce. Solo la saggezza e la ragione possono liberare dagli affanni gli uomini. La felicità, come si può ben notare nelle odi, deve essere goduta nell’attimoin cui ci si trova. Così è inutile girovagare senza meta se non si è raggiunta la serenità e quando la si ha, anche il luogo peggiore può diventare bello e vivibile. Seneca, più tardi, tratterà di questi stssi temi, citando anche i versi di Lucrezio, egli, ancora uma volta descrive l’uomo che vive proteso su un futuro che non gli appartiene, che vive, così, in uno stato di perenne alienzaione. Quando, poi, si trova solo con se stesso e tenta un bilancio dei suoi sforzi vani, allora lo assale la scontentezza di sé, alla quale tenta di reagire con continui spostamenti.

Omnes in eadem causa sunt, et hi qui levitate vexantur ac taedio assiduaque mutatione propositi, quibus semper magis placet quod reliquerunt, et illi qui marcent et oscitantur. […]Inde peregrinationes suscipiuntur uagae et litora pererrantur et modo mari se, modo terra experitur semper praesentibus infesta leuitas: "Nunc Campaniam petamus." Iam delicata fastidio sunt: "Inculta uideantur, Bruttios et Lucaniae saltus persequamur." Aliquid tamen inter deserta amoeni requiritur, in quo luxuriosi oculi longo locorun horrentium squalore releuentur: "Tarentum petatur laudatusque portus et hiberna caeli mitioris et regio uel antiquae satis opulenta turbae.... Iam flectamus cursum ad Vrbem: nimis diu a plausu et fragore aures uacauerunt, iuuat iam et humano sanguine frui." 14 Aliud ex alio iter suscipitur et spectacula spectaculis mutantur. Vt ait Lucretius:
Hoc se quisque modo semper fugit.
Sed quid prodest, si non effugit? Sequitur se ipse et urget grauissimus comes. Itaque scire debemus non locorum uitium esse quo laboramus, sed nostrum: infirmi sumus ad omne tolerandum, nec laboris patientes nec uoluptatis nec nostri nec ullius rei diutius. ( Seneca De tranquillitate animi II 6-13-15)

Anche seneca, in questo brano e in altre parti della sua opera, riprende il tema della commutatio loci lucreziana. Anche se stoico, egli è molto vicino all’epicureo lucrezio tanto che lo ha anche citato. Il De tranquillitate animi, l’opera da cui abbiamo stralciato il brano è dedicata a Sereno che ricerca la tranquillitas, una condizione, che, tuttavia risulata essere lontana e irraggiungibile. Anche in questo caso Seneca si pome, quasi come un medico, che dispensa una malattia per l’animo e qui si concretizza il suo intento di iuvare alios Solo la filosofia, lo studio attento delal fenomenologia delle passioni umane e della psiche può liberare l’uomo dal suo stato di angoscia esistenziale. Ed ecco una soluzione simile a quella di Lucrezio. Seneca, anche dal punto di vista linguistico riesce a rendere con particolare efficacia l’inutilià del continuo cambiamento di luogo. L’uomo volubile non riesce a vivere senza preoccupazioni ed è continuamente soggetto al dolore. Il moviemtno senza meta è ulteriormente sottolineato da Seneca con l’impiego dell’aggettivo vagae e col doppio parallelismo chiastico di peregrinationes suspiciuntur/ litora pererrantur / experitur…levitas. Anche la stessa scelta lessicale di levitas, sistantivo astratto dell’aggettivo levis-e « leggero », per translato il sostantivo che significa leggerezza indica l’incostanza e la volubilità, ostacolo al raggiungimento della tranquillitas. Quale è il rimedio contro il tedio che è sazietà, instabilità, labilità, volubilità, incoerenza, incostanza? La risposta di Seneca più discorsiva e meno lapidaria di quella di Lucrezio (fine del III libro del De rerum natura) rimanda al comune maestro Democrito: guardando alle cose stesse e conscio di essere nato per la morte (morti natus es ), cerca la tranquillità o euthymìa (Democrito scrisse un’opera sull’argomento). Che cos’è l’euthymìa, tradotta con tranquillitas animi (come già aveva fatto Cicerone)? È la stabilità dell’animo (stabilis animi sedes), è un corso sempre uguale e favorevole distante da esaltazioni e depressioni. Chi piace a se stesso è lieto, prova gioia e, lungi dall’errare, si mantiene costantemente nello stato divino dell’imperturbabilità (divinum non concuti ). È la consueta ricetta stoica che, in questo caso, si collega a Democrito, secondo cui l’anima è la dimora della nostra sorte e solo rettitudine e avvedutezza rendono felici. Il fine nostro è appunto l’euthymìa che non è identica al piacere ma è la condizione costante della calma e dell’equilibrio dell’animo non turbato da paura né da superstizioni né da altro stato passionale: è il piacere che dà una vita solitaria dedita alla speculazione. Anche Lucrezio vede nella ‘gnosi’ la salute, la guarigione dalla malattia che induce a fuggire se stessi. La fluttuazione, del resto, e la nausea nascono dal peso del non sapere che fa errare: il saggio guarda dall’alto dei templi sereni edificati dalla sapienza gli uomini che si agitano smaniosi di cose e di autenticità, e talora sono presi dal desiderio di autodistruzione e di morte. Simile attitudine in Seneca: occorre - dice a Sereno - che tu abbia fede in te e vada per la retta via senza fartene stornare dalle orme trasverse dei molti che vanno trascorrendo qua e là e di alcuni che si smarriscono addirittura nei pressi della via stessa. Certo è diversa la strada stoica da quella epicurea. E poi, aristocraticamente solitario e drammatico Lucrezio, più disponibile all’umana solidarietà Seneca; entrambi concordi nel respingere ciò che contraddice l’unitaria dottrina razionale, ma romanamente inclini ad ascoltare la voce del ‘cuore’ (non solo della mente: l’appello di Seneca al credere e al volere non è di poco momento ) e a rappresentare le fluttuazioni, le incertezze, eleaticamente connesse all’’errore dei mortali’, al punto che Lucrezio è preso dalla pietà, dal male e dal dolore che pur si propone di sconfiggere: ne consegue che il paradiso del saggio non lo appaga: “Che male sarebbe mai stato per noi non essere nati?” . Altro tono da quello di Epicuro che, nell’Epistola a Idomeneo, proclama di essere felice pur tra i tormenti del mal della pietra che lo sta conducendo a morte . E’ pesante la vita di chi non sa. Preso da quello che, a buon diritto, si può chiamare angoscia esistenziale, quasi schiacciato o quanto meno gravato dal non sapere, quest’uomo va errando: il saggio è immobile come l’essere parmenideo; ed è in alto, quasi innalzato al livello degli dei, superiore al ciclo delle cose mortali; di fronte alle quali si può ridere o piangere (però: humanius est deridere vitam quam deplorare) . Se Eraclito vedeva la vita come un dramma, a Democrito le cose umane parevano ridicole. Liberato dall’angoscia o almeno dall’accidia, l’uomo guarda grave, seppur sereno, oppure sorride. Seneca anche nelle Epistulae morales ad Lucilium cerca di opporre all’inquitudine dell’animo lo stordimento dei viaggi , egli nell’Epistula 28 replica con le stesse parole di Orazio.

SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
Hoc tibi soli putas accidisse et admiraris quasi rem novam quod peregrinatione tam longa et tot locorum varietatibus non discussisti tristitiam gravitatemque mentis? Animum debes mutare, non caelum. Licet vastum traieceris mare, licet, ut ait Vergilius noster,
terraeque urbesque recedant, ( Ver. Aen. III 72)
sequentur te quocumque perveneris vitia. Hoc idem querenti cuidam Socrates ait, 'quid miraris nihil tibi peregrinationes prodesse, cum te circumferas? premit te eadem causa quae expulit'. Quid terrarum iuvare novitas potest? quid cognitio urbium aut locorum? in irritum cedit ista iactatio. Quaeris quare te fuga ista non adiuvet? tecum fugis. Onus animi deponendum est: non ante tibi ullus placebit locus. ( Seneca Epistulae morales ad Lucilium III 28 1-2) .

Nella lettera inviata da Seneca a Lucilio il tema viene trattato in modo molto più personale che nel Tranquillitate animi, il problema della noia è visto in un’ottica personale e la drammaticità della situazione si riflette nello stile. Infatti si notano moltissimi periodi corti e fratti, sono presenti moltissime interrogative dirette il ritmo è inclalzante e le risposte brevi e concise. Come è usuale in Seneca, l’abbiamo visto nel brano precedente fa un largo uso di citazioni e di sentenze di altri autori.
Il tema lo si ritrova in S. Agostino che all’inquietudine dell’animo incapace di trovare pace oppone più volte, nelle Confessioni, la certezza cristiana : inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te (Conf. I, 1,1).
Con Petrarca il tema entra nella letteratura italiana. Petrarca, per primo, rivolge particolare attenzione al prorio io, che diviene il centro della poesia. Se Dante e i poeti Cortesi concepivano la poesia come un fenomeno « sociale » da vivere con degli ascoltatori e anche con degli interlocutori, Petrarca si rivolge soprattutto a se stesso. Egli, infatti, passò gran parte della sua vita in viaggi e forse possiamo notare un aspetto autobiografico. Inoltre, tratta in maniera estesa il tema dell’accidia nel Secretum un dialogo immaginario con S.Agostino. “Sei in preda di una tremenda malattia dello spirito, che i moderni chiamano accidia e gli antichi aegritudo” , Francesco non ha difficoltà a riconoscere: “E’ vero” (Fateor), e a dipingere un quadro a lui ben noto: “in questa tristezza tutto è aspro e misero e orribile e la via della disperazione è sempre aperta, e tutto fa sì che le anime infelici ne siano sospinte verso la morte […] questo flagello mi ghermisce a volte così tenacemente da tormentarmi nella sua stretta per giorni e notti intere, e allora per me non è più tempo di luce e di vita, ma oscurità e inferno e strazio mortale” . E poco dopo, ad Agostino che gli chiede di spiegarsi meglio, racconta: “se la fortuna [….] mi butta addosso tutte le miserie della condizione umana e il ricordo degli affanni passati e il terrore dei futuri, allora […] comincio a lamentarmi. E’ questa l’origine di quel grave dolore: come se uno fosse circondato da innumerevoli nemici e non avesse alcuna via di fuga, né speranza di clemenza, né soccorsi, ma tutto gli fosse contro” . Si noti: all’interno di una metafora bellica (la fortuna assedia e colpisce per espugnare), le armi a cui ricorre il nemico sono la “laborum preteritorum memoria futurorumque formido”, proprio come nel sonetto “le cose … passate / .. dànno guerra, et le future anchora”. Dell’impossibilità per l’accidioso di apprezzare le “cose presenti” queste pagine del Secretum fanno addirittura il segno precipuo della malattia: “Dimmi, qual è per te la cosa peggiore? – chiede Agostino; “Tutto quello che vedo attorno, e quello che ascolto e quello che tocco” – risponde Francesco; “Perbacco! Non ti piace nulla di nulla?” – incalza Agostino; “Niente, o poche cose davvero” – ribadisce Francesco. “Tutto questo – conclude Agostino – è tipico di quella che ho chiamato accidia: le cose tue, ti affliggono tutte” . Alla base di questo male vi è un desiderio che non riesce ad individuare un oggetto preciso e resta sempre inappagato e inquieto. Di qui nasce una forma di inerzia morale, di languida debolezza del volere, che annulla ogni possibilità di scegliere e di agire, in quanto ogni oggetto rivela la sua vanità. Il desiderio è inquieto perché si accompagna alla coscienza del carattere effimero e vacuo dei beni materiali, della miseria della condizione umana, che getta l’anima in una tristezza perenne, senza via di scampo. Eppure in questa sofferenza c’è una sorta di piacere, di compiacimento, è proprio questo che impedisce a Petrarca di ricattarsi e genera in lui come un’accettazione rassegnata della propria natura.
Nel seicento un filosofo in particolare si occupò del problema del senso della vita: Blaise Pascal. Pascal ritiene che l’attegiamento della mentalità comune nei confronti dei problemi esistenziali sia quello del divertissement. Questo termine ha il significato filosofico di oblio e stordimento di sé nella molteplicità delle occupazioni quotidiane e degli intrattenimenti sociali. Il divertimento è quindi una fufga da sé, come non ricordasi le parole di Lucrezio, ottenuta tramite una qualsivoglia attività lavorativa o ricreativa. Ma da cosa fugge l’uomo? Per Pascal sostanzialmente da due cose: dalla propria infelicità costitutiva e dai supremi interrogativi circa la vita e la morte. Infatti niente è così insopportabile all’uomo che l’essere in pieno riposo senza passioni, senza impegni, senza divertimento, senza applicazione. Egli sente, allora, il suo niente, il suo abbandono, la sua insufficienza. Immediatamente uscirà dal fondo della sua anima l’umor nero, la perfidia, la tristezza e il senso di vuoto interiore. Le occupazioni, così, distraggono l’uomo dalla considerazione di sé e dalla sua condizione. Il divertimento, essendo una continua fuga da noi stessi, nel tentativo illusorio di raggiungere una situazione di completo appagamento non genera certo felicità . L’unica cosa che può consolare l’uomo dalle sue miserie è la più grabnde delle sue miserie: la noia stessa, la noia ci spinge a cercare un mezzo solido per uscirne. 201. Niente è insopportabile all'uomo quanto di essere in un completo riposo, senza passioni, senza faccende, senza divertimento, senza un'occupazione. Avverte allora il proprio nulla, il proprio abbandono, la propria insufficienza, la propria dipendenza, il proprio vuoto. Subito saliranno dal profondo dell'animo suo la noia, l'umor nero, la tristezza, il cruccio, il dispetto, la disperazione.
Il tema avrà dei risvolti interessanti, alcuni secoli dopo, con il poema il Giorno di Parini. Il Giorno è un poema in endecasillabi sciolti che mirava a rappresentare satiricamente l’aristocrazia milanese di fine settecento. Il poema aveva per argomento la descrizione della giornata di un Giovin signore della nobiltà milanese e nel suo progetto originario doveva articolarsi in tre parti: il Mattino, il Mezzogiorno e la Sera. Il Giorno rientra esteriormente nel genere didascalico (come il De rerum natura): Parini afferma di voler insegnare al Giovin signore come riempire le sue giornate oziose e noiose. Qui compare l’intento satirico di Parini, che intendeva colpire attraverso la letteratura un’aristocrazia ormai svuotata di tutti i valori che prima la contraddistinguevano. Il discorso del “precettore” è fondato sulla figura dell’antifrasi, secondo la quale viene affermato il contrariodi ciò che si vuole far intendere. Il prrecettore finge di accettare il punto di vista del Giovin signore e del suo mondo, di condividerne i gusti e i giudizi, perciò la vita futile e vuota della nobiltà viene celebrata in termini iperbolici, perciò gesti semplici e banali, come bere una tazza di caffè, vengono celebrati in modo eccezionale. In realtà da questa descrizione a tratti realistica a tratti iperbolizzata appare la vera essenza di quel mondo, cioè la sua vacuità frivola e insuslsa e dietro l’ironica enfasi celebrativa e alle spalle delle della figura servile del precettore Parini smaschera una classe sociale che non è capace di dar senso alla propria vita. La critica pariniana si avvale anche di altri strumenti, come ad esempio un particolare trattamento dello spazio e del tempo. Innazitutto non viene scelta un giornata particolare, che si segnali per qualceh accadimento di riliev, degno di essere ricordato, ma di una giornata tipo, eguale a tutte le altre. Già questo basta a dare il senso di una vita banale, dove non succede mai nulla di importante. Inoltre il tempo in cui si collocano gli avvenimenti è abbastanza breve, poche ore, dal risveglio sino al tramonto, eppure alla lettura si ha l’impressione di un tempo lunghissimo: l’effetto è creato dall’indugio descrittibo estrememente lento. Oltre ad essere un tempo lungo è anche un tempo vuoto in cui si ripetono monotonamente gli stessi genti, le medesime parole. Così l’impostazione narrativa vale a rendere il senso di un mondo vacuo, privo di senso e dominato dalla noia. A questo proposito sarebbe interessante analizzare il proemio del Giorno (vv1-32).

Giovin Signore, o a te scenda per lungo
Di magnanimi lombi ordine il sangue
Purissimo, celeste; o in te del sangue
Emendino il difetto i compri onori,
E le adunate in terra o in mar ricchezze
Dal genitor frugale in pochi lustri;

Me precettor d’amabil rito ascolta.
Come ingannar questi nojosi e lenti
Giorni di vita, che sì lungo, tedio
E fastidio insoffribile accompagna,
Or io t’insegnerò. Quali al Mattino,
Quai dopo il Mezzodì, quali la Sera
Esser debban tue cure apprenderai,
Se in mezzo a gli ozj tuoi ozio ti resta
Pur di tender gli orecchi a’versi miei.
Già l’are a Vener sacre e al giocatore
Mercurio, ne le Gallie e in Albione
Devotamente hai visitate, e porti
Pur anco i segni del tuo zelo impressi:
Ora è tempo di posa. In van te chiama
Lo Dio dell’armi; che ben folle è quegli
Che a rischio de la vita onor si merca;
E tu naturalmente il sangue abborri.
Né i mesti de la dea Pallade studj
Ti son meno odiosi: avverso ad essi
Ti feron troppo i queruli ricinti,
Ove l’arti migliori e le scïenze,
Cangiate in mostri e in vane orride larve,
Fan le capaci volte echeggiar sempre
Di giovanili strida. Or primamente
Odi, quali il mattino a te soavi
Cure debba guidar con facil mano.
(G. Parini, Il Giorno, vv1-32)

Il poeta, in questi versi, si presenta come un amabile precettore, che intende insegnare al nobile aristocratico il modo di riempire i giorni vuoti e noiosi della sua vita. Il giovane è sazio dei bordelli e delle case da gioco e respinge con orrore l’idea di dedicarsi alla armi e allo studio. Questo preambolo, dietro al velo dell’ironia, è inteso a colpire la corruzione e l’inutilità della classe aristocratica, la sua incapacità ad intraprendere delle occupazioni che dovrebbero esserle propire. Il brano inzia con un linguagio aulico, latineggiante, unito alla precisione scientifica tipica del Parini. L’uso di un linguaggio alto e raffinato vuole sottolineare l’intento parodico dell’autore.
Il tema del Taedium vitae ha con Leopardi il culmine della sua drammaticità, egli in molte parti della sua opera tratterà di questo argomento, senza intenti moralistici o didascalici, come possiamo notare negli autori precedenti. La poesia di Leopardi non nasce solo da un senso di inadeguatezza alla realtà, di sproporzione fra reale e sovrannaturale, ma soprattutto da un dolore che è motore primario del fare poetico, dolore universale e insieme profondamente intimo e personale. Il tema del dolore appartiene sia al Leopardi che scrive lo Zibaldone che a quello dei Canti, ma ha diverse vesti: il dolore per la propria patria, l'Italia, divisa e preda di dominazioni straniere; il dolore per lo sfiorire rapido e inavvertito della giovinezza; lo scorrere inesorabile del tempo; il dolore per la morte e soprattutto per la morte intesa in senso materialistico, come termine ultimo della vita. Eppure da questo dolore traspare a volte l'avvertimento di un senso del destino come realtà positiva, e l'Autore quasi se ne vergogna, ritornando sui suoi passi, nel cosiddetto pessimismo cosmico tratto fondamentale della sua poetica. Ma il pessimismo non cancella il bisogno, il desiderio (dal latino sidera, stelle) di infinito insito in ogni uomo, per cui anche il "naufragar" può essere "dolce in questo mare", che altro non è se non il mistero dell'Essere. Al centro della produzione leopardiana vi sta la consapevolezza dell’infelicità dell’uomo. Egli arriva a ravvisare la causa prima dell’infelicità dell’uomo in alcune pagine fondamentali del suo Zibaldone. Restando fedele ad un indirizzo sensistic, identifica la felicità col piacere sensibile e materiale. Ma l’uomo non desidera un piacere, ma il piacere stabile e definitivo, infinito per estensione e durata,. Ma nessun piacere fugace goduto dagli uomini è capace a soddisfare quest’esigenza e così nasce in lui un senso di vuoto e di insoddisfazione perpetua, che va a sfociare nella noia, nel vuoto esistenziale. L’uomo è, dunque, per Leopardi, necessariamente infelice, per sua stessa costituzione. Ma la natura, per lo meno nella prima fase della sua produzione è concepita da Leopardi come madre benigna e provvidenzialmente attenta al bene delle sue creature. Essa ha voluto, sin dalle origini, offrire alle sue creature un rimedia all’infelicità: l’immaginazione e le illusioni, grazie alle quali posso levare gli occhi dalla misera condizione in cui versano. Per questa ragione gli uomini primitivi e gli antichi greci e romani, che erano più vicini alla natura e quindi capaci di illudersi e di immaginare erano più felici, perché ignoravano la loro condizione. La prima fase del pensiero leopardiano è tutta costruita sull’antitesi tra natura e ragione tra modernità ed antichità. Gli antichi nutriti di generose illusioni erano capaci di azioni eroiche e magnanime, erano più forti fisicamente e moralmente. L’epoca moderna, invece, con la sua filosofia, con la sua scienza, col suo progresso conduce gli uomini verso l’infelicità, l’epoca moderna è egoista e disumana. Il progresso della civiltà e della ragione ha spento ogni slancio magnanimo e ha reso i modani incapaci di ogni azione eroica. Leopardi dà un giudizio durissimo sulla civiltà dei suoi anni, la vede dominata dall’inerzia e dal tedio, soprattutto per l’Italia decaduta dalla grandezza del passato. La condizione negativa del presente viene vista come un allontanamento progressivo da una condizione originaria di felicità. Non bisogna scordarsi, però, che l’uomo è votato sempre e comunque all’infelicità e che la felicità antica era solo un dono della natura. Questa concezione della natura vista come una madre buona e dispensatrice di utili doni entra in crisi. La natura mira alla conservazione della specie e per questo fine può anche sacrificare il bene dell’individuo e generare sofferenza. Ne si deduce che il male non è un semplice accidente, ma rientra nel piano stesso della natura. La natura ha dato all’uomo un desiderio di felicità infinita, senza fornirgli i mezzi per soddisfarla. Muta, così anche il senso dell’infelicità umana: prima, in termini sensistici, era concepita come assenza di piacere in una dimensione psicologica ed esistenziale; ora l‘infelicità è causata da mali esterni a cui nessuno può sfuggire. La natura è vista come causa del nulla e della noia, l’infelicità degli uomini è inevitabile indipendentemente dalle coordinate spaziali e temporali. Questa concezione caratterizzerà tutta la produzione successiva al 1824. L’uomo deve perciò rendersi conto di questa realtà di fatto e contemplarla in modo distaccato e rassegnato, come un saggio che pratica l’atarassia (per la dottrina epicurea "assenza di turbamento") e la lucida contemplazione del reale. Il destino dell’uomo, ovvero la sua malattia, è in fondo lo stesso per tutti. In questa fase non ci sono reazioni titaniche perché Leopardi ha capito che è inutile ribellarsi, ma che bisogna invece raggiungere la pace e l’equilibrio con se stessi, in modo da opporre un efficace rimedio al dolore. Leopardi reputa proprio la sofferenza la condizione fondamentale dell’essere umano nel mondo, arrivando perfino a dire che “tutto è male”. Il taedium vitae è la noia che fa sentire l’uomo estraneo al mondo. Egli oscilla tra la necessità di appartarsi da un mondo che sente estraneo per immergersi nel proprio universo interiore ed il bisogno di consolare ed essere consolato.


Poco propriamente si dice che la noia è mal comune. Comune è l'essere disoccupato, o sfaccendato per dir meglio; non annoiato. La noia non è se non di quelli in cui lo spirito è qualche cosa. Più può lo spirito in alcuno, più la noia è frequente, penosa e terribile. La massima parte degli uomini trova bastante occupazione in che che sia, e bastante diletto in qualunque occupazione insulsa; e quando è del tutto disoccupata, non prova perciò gran pena. Di qui nasce che gli uomini di sentimento sono sì poco intesi circa la noia, e fanno il volgo talvolta maravigliare e talvolta ridere, quando parlano della medesima e se ne dolgono con quella gravità di parole, che si usa in proposito dei mali maggiori e più inevitabili della vita. (Leopardi, Pensiero LXVII)
e
La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. Non che io creda che dall'esame di tale sentimento nascano quelle conseguenze che molti filosofi hanno stimato di raccorne, ma nondimeno il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l'ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell'animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l'universo infinito, e sentire che l'animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d'insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali. (Leopardi, Pensiero LXVIII)

La critica ha ravvisato due visioni leopardiane della noia. se, per un verso, la noia sarebbe il male più comune, per un altro verso, sarebbe esclusiva delle anime più grandi. In altri termini, ma ricalcando la medesima opposizione, la noia è indicata come la più sterile delle passioni e come il più sublime di tutti sentimenti. La noia coincide con l’incapacità che le cose hanno di appassionare. La noia è vuoto dell’anima e mancanza di piacere, è il contrario della “vita vitale” è desiderio di felicità privo di appagamento e distrazione. E’ pena del sentirsi vivere, è un sentimento di un atto di essere che va a fare i conti con la finitudine della vita e degli enti. Proprio perché la noia è il più sublime dei sentimenti umani, di essa si può dire che è il capovolgimento di quel massimo di passione che è l’entusiasmo e del suo fiorire: il sublime. Noia ed entusiamo condividono la medesima radicalità, il medesimo sublime rapporto con una grandezza “senza norma”, di cui però la noia è l’esito infecondo e mortifero.
Quindi la noia è sostanzialmente indeterminazione, assenza di ogni sentimento particolare. è assenza di ogni scopo, è il dramma di una ricerca senza oggetto. Agli occhi di Leopardi il dramma dell’uomo sta tutto nel suo essere in-quietus, continuamente oscillante tra movimento e riposo, ma il riposo si trasforma ben presto in tedio, avviando così una spasmodica ricerca di novità e di movimento: tutto il contrario della quiete agognata. Con la noia la vita diviene insipida e perde ogni valore, inizia così un movimento, che sia fuga dall’uniforme, dall’uguale.

Nell'imo petto, grave, salda, immota
Come colonna adamantina, siede
Noia immortale, incontro a cui non puote
Vigor di giovanezza, e non la crolla
Dolce parola di rosato labbro,
E non lo sguardo tenero, tremante,
Di due nere pupille, il caro sguardo,
La più degna del ciel cosa mortale.

Altri, quasi a fuggir volto la trista
Umana sorte, in cangiar terre e climi
L'età spendendo, e mari e poggi errando
Tutto l'orbe trascorre, ogni confine
Degli spazi che all'uom negl'infiniti
Campi del tutto la natura aperse,
Peregrinando aggiunge. Ahi ahi, s'asside
Su l'alte prue la negra cura, e sotto
Ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno
Felicità, vive tristezza e regna.
(G. Leopardi, Canti, Al conte Carlo Pepoli, vv 70-87)

Nel pellegrinaggio a cui lo costringe la necessaria ricerca di una condizione libera dalla noia, l’uomo incontra il suo ultimo confine il limite. Non si può cambiare luogo per fuggire la tristezza dell’animo, cambiar clima ( qui viene in mente Il dialogo della Natura con Islandese: “mi posi a cangiar luoghi e climi, per vedere se in alcuna parte della terra potessi non offendendo non essere offeso, e non godendo non patire…” e “Quasi tutto il mondo ho cercato, e fatta esperienza di quasi tutti i paesi; sempre osservando il mio proposito, di non dar molestia alle altre creature, se non il meno che io potessi, e di procurare la sola tranquillità della vita. Ma io sono stato arso dal caldo fra i tropici, rappreso dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall'incostanza dell'aria, infestato dalle commozioni degli elementi in ogni dove.”) perché la noia e il male risiedono in qualsiasi luogo della terra. La cura (latinismo) s’annida sulle navi attraverso le quali si cerca di fuggire ( è una bellissima immagine oraziana: Carm II 16 18-22) alla propria infelicità. Non c’è, però, via di scampo dall’infelicità e la natura in quasisi luogo del mondo non provvede al bene della sue creature. Questo canto, assimilabile alle Operette Morali( il poeta analizza il suo stato d’animo ed enuncia il proposito di dedicarsi interamente all’investigazione dell’acerbo vero), è un’epistola in versi, lo stesso genere letterario delle Epistole di Orazio che abbiamo citato. La situazione esposta è del tutto simile a quella tratta nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia nei versi 105-132:

O greggia mia che posi, oh te beata
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Tu se' queta e contenta;
E gran parte dell'anno
Senza noia consumi in quello stato
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda, o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perché giacendo
A bell'agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
(G. Leopardi, Canti, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
vv 105-132)

L’uomo aspira al tutto o al nulla e si rivolge alla luna supponendola fornita di quella conoscenza suprema, si rivolge, poi, alla greggia invidiandole il riposo che viene dall’incoscienza. E’ bene ricordare, anche, la definizione di noia data nel Dialogo di Plotino e Porfirio:
Anzi incomincerò io stesso; e ti dirò che questa mia inclinazione non procede da alcuna sciagura che mi sia intervenuta, ovvero che io aspetti che mi sopraggiunga: ma da un fastidio della vita; da un tedio che io provo, così veemente, che si assomiglia a dolore e a spasimo; da un certo non solamente conoscere, ma vedere, gustare, toccare la vanità di ogni cosa che mi occorre nella giornata. Di maniera che non solo l'intelletto mio, ma tutti i sentimenti, ancora del corpo, sono (per un modo di dire strano, ma accomodato al caso) pieni di questa vanità. E qui primieramente non mi potrai dire che questa mia disposizione non sia ragionevole: se bene io consentirò facilmente che ella in buona parte provenga da qualche mal essere corporale. Ma ella nondimeno è ragionevolissima: anzi tutte le altre disposizioni degli uomini fuori di questa, per le quali, in qualunque maniera, si vive, e stimasi che la vita e le cose umane abbiano qualche sostanza; sono, qual più qual meno, rimote dalla ragione, e si fondano in qualche inganno e in qualche immaginazione falsa. E nessuna cosa è più ragionevole che la noia. I piaceri sono tutti vani. Il dolore stesso, parlo di quel dell'animo, per lo più è vano: perché se tu guardi alla causa ed alla materia, a considerarla bene, ella è di poca realtà o di nessuna. Il simile dico del timore; il simile della speranza. Solo la noia, la qual nasce sempre dalla vanità delle cose, non è mai vanità, non inganno; mai non è fondata in sul falso. E si può dire che, essendo tutto l'altro vano, alla noia riducasi, e in lei consista, quanto la vita degli uomini ha di sostanzievole e di reale. (G. Leopadri, Operette Morali, Dialogo di Plotino e Porfirio cit.)

Vediamo come in entrambe le opere si ripresenti sempre lo stesso termine: fastidio. La noia porta a considerare la vita come un fastidio, una candizione da cui allontanarsi presto. Quindi la vita con la noia nonvale la pena di essere vissuta, ed è meglio lasciarla subito. Il tedio è un sentimento di malcontento che non dà requie all’uomo e lo tormenta da mattino a sera. Nel Canto notturno al pastore, poeta è contrapposta la greggia che trova pace e non ha alcun senso di noia, egli invece è costretto, come se punto da uno sprone, a cambiare luogo a essere inquieto. Nell’operetta, invece, questo fastidio divine la causa per il suicidio, per porre fine alla vita spesa tra le vanità delle cose. Porfirio si rende conto che tutto ciò che accade in una giornata è vano e anche gli stessi piaceri lo sono. Anche lo stesso dolore è vano è nulla poiché la sua causa ha poco valore. Soltanto la noia non è vana.
La noia compare anche in un’altra lirica leopardiana: Il passero solitario.

A me, se di vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all'altrui core,
E lor fia vóto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest'anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirornmi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.
(G. Leopardi, Canti, Il passero solitario vv 50-59)

Leopardi in questi versi rappresenta l’inaridimento sentimentale e fantastico della vecchiaia. La vecchiaia è l’età del vero ( e già lo si vede a livello lessicale, in questa ultima parte dell’ultima strofa in cui sono cadute tutte le illusioni della giovinezza mancano termini vaghi e allusivi- si veda la teoria del piacere- ma vi sono termini negativi). Alla condizione arida e disillusa dei tempi maturi è accostata la noia causata dalla caduta di ogni illusione e dalla consapevolezza dell’arido vero.
La formulazione più bella e completa del tema della noia è Leopardi è stata fornita nel Dialogo di Torquato Tasso col suo Genio familiare. Nell’operetta sono stati ravvisati dei mezzi con i quali poter superare lo stato di tedio che affligge Torquato Tasso rinchiuso nel carcere di Sant’Anna.

Genio
Che cosa è la noia?
Tasso
Qui l'esperienza non mi manca, da soddisfare alla tua domanda. A me pare che la noia sia della natura dell'aria: la quale riempie tutti gli spazi interposti alle altre cose materiali, e tutti i vani contenuti in ciascuna di loro; e donde un corpo si parte, e altro non gli sottentra, quivi ella succede immediatamente. Così tutti gl'intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia. E però, come nel mondo materiale, secondo i Peripatetici, non si dà vòto alcuno; così nella vita nostra non si dà vòto; se non quando la mente per qualsivoglia causa intermette l'uso del pensiero. Per tutto il resto del tempo, l'animo considerato anche in se proprio e come disgiunto dal corpo, si trova contenere qualche passione; come quello a cui l'essere vacuo da ogni piacere e dispiacere, importa essere pieno di noia; la quale anco è passione, non altrimenti che il dolore e il diletto.
Genio
E da poi che tutti i vostri diletti sono di materia simile ai ragnateli; tenuissima, radissima e trasparente; perciò come l'aria in questi, così la noia penetra in quelli da ogni parte, e li riempie. Veramente per la noia non credo si debba intendere altro che il desiderio puro della felicità; non soddisfatto dal piacere, e non offeso apertamente dal dispiacere. Il qual desiderio, come dicevamo poco innanzi, non è mai soddisfatto; e il piacere propriamente non si trova. Sicché la vita umana, per modo di dire, e composta e intessuta, parte di dolore, parte di noia; dall'una delle quali passioni non ha riposo se non cadendo nell'altra. E questo non è tuo destino particolare, ma comune di tutti gli uomini.
Tasso
Che rimedio potrebbe giovare contro la noia?
Genio
Il sonno, l'oppio, e il dolore. E questo è il più potente di tutti: perché l'uomo mentre patisce, non si annoia per niuna maniera.
Tasso
In cambio di cotesta medicina, io mi accontento di annoiarmi tutta la vita. Ma pure la varietà delle azioni, delle occupazioni e dei sentimenti, se bene non ci libera dalla noia, perché non ci reca diletto vero, contuttociò la solleva ed alleggerisce. Laddove in questa prigionia, separato dal commercio umano, toltomi eziandio lo scrivere, ridotto a notare per passatempo i tocchi dell'oriuolo, annoverare i correnti, le fessure e i tarli del palco, considerare il mattonato del pavimento, trastullarmi colle farfalle e coi moscherini che vanno attorno alla stanza, condurre quasi tutte le ore a un modo; io non ho cosa che mi scemi in alcun parte il carico della noia.
Genio
Dimmi: quanto tempo ha che tu sei ridotto a cotesta forma di vita?
Tasso
Più settimane, come tu sai.
Genio
Non conosci tu dal primo giorno al presente, alcuna diversità nel fastidio che ella ti reca?
Tasso
Certo che io lo provava maggiore a principio: perché di mano in mano la mente, non occupata da altro e non isvagata, mi si viene accostumando a conversare seco medesima assai più e con maggior sollazzo di prima, e acquistando un abito e una virtù di favellare in se stessa, anzi di cicalare, tale, che parecchie volte mi pare quasi
avere una compagnia di persone in capo che stieno ragionando, e ogni menomo soggetto che mi si appresenti al pensiero, mi basta a farne tra me e me una gran diceria.
(G. Leopardi, Operette Morali, Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio Familiare, cit.)

La noia è come l’aria che riempie gli spazi dell’esistenza lasciati vuoti dal dolore ( e qui ci viene in mente Schopenhauer), e questa è l’immagine più bella che ci viene data della noia. Essa riprende la levitas sencana, entrambi hanno rappresentato il tedio attraverso immagini leggere e volubili, inconsistenti. Leopardi già in un passo dello Zibaldone incomincia a vedere la noia come l’aria che riempie tutti gli intervalli degli altri oggetti. Tuttavia l’uomo non può mai raggiungere il piacere e resta sempre in preda alla noia nei momenti di intermittenza dal dispiacere. Il brano è un susseguirsi di immagini tenui e leggere, dal rarefarsi aereo di quelle riferite alla noia è scaturita un’immagine dei piaceri simili a ragnatele. L’aria della noia penetra nell’inconsistente trama dei piaceri vani. Dal momento che il piacere non si può raggiungere la vita resta in preda al dispiacere o alla noia. Il dolore, il male, è il più forte rimedio alla noia, più efficace del sonno e dell’oppio: l’uomo mentre prova dolore non sente la noia. In questa operetta si trovano delle soluzioni al male esistenziale della noia: il sonno ( il motivo del sonno consolatore sarà ripreso nell’operetta del Cantico del gallo silvestre), l’oppio e il dolore. Anche lo stesso Tasso ha trovato una via di scampo dalla noia, tuttavia tale soluzione non è definitiva, ma alleggerisce l’animo umano. Tale soluzione è il continuo cambiamento di luogo, la coomutatio loci, il motivo conduttore del nostro percorso intertestuale. A confronto con gli altri autore e con le sue stesse opere qui il cambiamento di luogo non è apertamente condannato, anche se non è posto come soluzione alla noia, poiché non esiste una soluzione vera, che non sia alienante o dolorosa.
Vi è un altro autore ottocentesco molto vicino a Leopardi per toni e contenuti: Schopenhauer. Egli afferma che la vita non è che la manifestazione di un’infinita volontà di vivere, gli uomini e le altre creature vivono solo per continuare a vivere. Volere significa desiderare e desiderare significa trovarsi in uno stato di tensione per la mancanza di qualcosa che si ha e si vorrebbe avere. Come non ricordarsi della teoria del piacere di Leopardi. Questo stato di desiderio coincide con il dolore. Perché vi sia piacere bisogna per forza che vi sia un precedente stato di dolore, ma questo non è valido al contrario, non è indispensabile che vi sia uno stato di piacere affinché vi sia dolore. Il dolore è una costituente fisica dell’uomo. Il piacere è una funzione derivata dal dolore che vive unicamente a spese di esso. Ma, per un desiderio appagato ve ne sono moltissimi altri inappagati. La brama è durevole, infinita, la soddisfazione di questa brama è, invece, breve. Non si può sfuggire al dolore, esso rimarrà sempre e il piacere è soltanto momentaneo. A questo proposito, accanto al dolore, che è una realtà durevole e al piacere che è qualcosa di momentaneo, Schopenhauer pone una terza situazione esistenziale: la noia. Essa subentra quando vien meno l’aculeo del desiderio ( lo spron leopardiano) oppure il frastuono delle attività o il pungolo delle preoccupazioni. Di conseguenza la vita non è che un pendolo che oscilla incessantemente tra dolore e noia, passando attraverso l’intervallo fugace, e per di più illusorio, del piacere e della gioia.

Ogni volere proviene da un bisogno, cioè da una privazione, da una sofferenza. La soddisfazio¬ne vi mette un termine; ma per un desiderio che viene soddisfatto, ce ne sono dieci almeno che debbono esser contrariati; per di più, ogni forma di desiderio sembra non aver mai fine, e le esi¬genze tendono all'infinito: la soddisfazione è breve e avaramente misurata. Ma l'appagamento fi¬nale non è poi che apparente: ogni desiderio soddisfatto cede subito il posto ad un nuovo desiderio:il primo è una disillusione riconosciuta, il secondo una disillusione non ancora riconosciuta. Nessun voto realizzato può dare una soddisfazione duratura e inalterabile; è come l'elemosina che si getta a un mendicante, che gli salva la vita oggi per prolungare i suoi tormenti sino all'indomani. Finché la nostra coscienza è riempita dalla nostra volontà, finché ci abbandoniamo all'impulso dei deside¬ri con la loro alternativa di timori e di speranze, finché, in una parola, siamo soggetti del volere, non ci saranno concessi ne felicità duratura ne riposo. Inseguire o fuggire, temer la sventura o anelare alla gioia, è in realtà la stessa cosa; l'inquietudine di una volontà sempre esigente, in qualunque for¬ma si manifesti, riempie ed agita incessantemente la coscienza; ora, senza tranquillità, nessun vero benessere è possibile. [...] Già nella natura incosciente, costatammo che la sua essenza è una costante aspirazione senza scopo e senza posa; nel bruto e nell'uomo, questa verità si rende manifesta in modo ancor più elo¬quente. Volere e aspirare, questa è la loro essenza; una sete inestinguibile. Ogni volere si fonda su di un bisogno, su di una mancanza, su di un dolore: quindi è in origine e per essenza votato al do¬lore. Ma supponiamo per un momento che alla volontà venisse a mancare un oggetto, che una troppo facile soddisfazione venisse a spegnere ogni motivo di desiderio: subito la volontà cadrebbe nel vuoto spaventoso della noia: la sua esistenza, la sua essenza, le diverrebbero un peso insoppor¬tabile. Dunque la sua vita oscilla, come un pendolo, fra il dolore e la noia, suoi due costitutivi es¬senziali. Donde lo stranissimo fatto, che gli uomini, dopo ricacciati nell'inferno dolori e supplizi, non trovarono che restasse, per il cielo, niente all'infuori della noia. ( A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, par 38, a cura di C. Riconda).

domenica 28 marzo 2010

Ibico Fr5P. (Text Athen 13 601b-c)

Ἦρι μὲν αἵ τε Κυδώνιαι
μηλίδες ἀρδόμεναι ῥοὰν
ἐκ ποταμῶν, ἵνα παρθένων
κῆπος ἀκήρατος, αἵ τ' οἰνανθίδες
αὐξόμεναι σκιεροῖσιν ὑφ' ἕρνεσιν
οἰναρέοις θαλέθοισιν · ἐμοὶ δ' ἔρος
οὐδεμίαν κατακητος ὥραν,
ἅθ' ὑπὸ στεροπᾶς φλέγων
Θρηίκιος βορέας,
ἀίσσων παρὰ Κύπριδος ἀζαλέιας
μανίαισιν ἐρεμνὸς
ἀθαμβὴς ἐγκρατέως
παιδόθεν φυλάσσει
ἡμετέρας φρένας.

(Metro: 1-3 ibicei 4-6 alcmanii 7 decasillabo alcaico 8 ibiceo (mediante integrazione) 9 hemiepes maschile 10-11 alcmanii 12 decasillabo alcaico 13 dimetro catalettico).


In primavera i meli
cindoni irrorati dai flutti
dei fiumi, là dove vi è il giardino
incontaminato delle Vergini crescono
i germogli sotto gli ombrosi tralci
ricchi di pampini fioriscono, per me eros...
non dorme in nessuna stagione,
ma come il Tracio Borea
bruciando allo scoppio della folgore,
avventandosi da Cipride,
con ardenti follie, oscuro implacabile,
con potenza profonda trattiene
l'anima mia.


Ibico ha posto all'inizio di verso Ἦρι, con vigorosa enfasi quasi a rappresentare il profondo contrasto tra il frugifero rigoglio della natura nel tepore primaverile e la forza inesorabile dell'amore tratteggiato con immagini forti e violente che non lasciano presagire nessun punto di contatto con la natura amena della prima metà del frammento. Spicca ai primi versi l'immagine dei meli Cindoni, alberi sacri alla dea Afrodite, il melo era simbolo dell'amore e la mela di qualunque qualità (si veda a questo proposito: Saffo 105a e fr 2 V.). La lingua è particolarmente ricca di rimandi colti ed è elaborata in ampie arcate sintattiche (quasi contrapposta alla breve intensità di Saffo, come notò H Fraenkel). Il linguaggio colto e artificioso della lirica corale in Ibico unisce a un sostrato epico pochi apporti dorici ed eolici. E' eolico il genitivo plurale ῥοὰν, definito dal Gallavotti "di partecipazione e di godimento", perché indica una fruizione parziale rispetto a un concetto totale, tale costrutto era presente anche in Omero. Compare poi l'immagine di un giardino di vergini, non si sa chi siano queste vergini (il carme non appartiene alla prima maniera stesicorea di Ibico, ma è già melica monododica), il Bowra ravvisa nell'immagine dell'uva che cresce il passaggio alla maturità delle fanciulle. Troviamo poi un'immagine analoga del giardino intatto in Euripide (Ippolito 74 -78):
σοὶ τόνδε πλεκτὸν στέφανον ἐξ ἀκηράτου
λειμῶνος, ὦ δέσποινα, κοσμήσας φέρω,
ἔνθ᾽ οὔτε ποιμὴν ἀξιοῖ φέρβειν βοτὰ
οὔτ᾽ ἦλθέ πω σίδηρος, ἀλλ᾽ ἀκήρατον
μέλισσα λειμῶν᾽ ἠρινὴ διέρχεται,
Ma anche in ambito romano Catullo 62 (39-41):
ut flos in saeptis secretus nascitur hortis,
ignotus pecori, nullo convulsus aratro,
quem mulcent aurae, firmat sol, educat imber...

Al verso settimo vi è un repentino cambio di scena, alla primavera viene contrapposta l'egemonia terrificante di Eros, che sconvolge in ogni stagione. Anche qui è presente, come in Saffo (fr 47 V.), il vento incessante come termine di paragone, non vi è più nulla della calma pace da locus amoenus dei primi versi, qui fuochi e saette, aridità e dolore, alle divine sorgenti di grazia si oppone la feroce forza di eros, che gioca con l'animo del poeta e lo tiene in catene, minandone la libertà. La luce della primavera nel suo massimo splendore lascia spazio alle tenebre portatrici di terrore di un dio, che porta sofferenze agli uomini. ὥραν è disperata antitesi all' Ἦρι iniziale, il Gentili osserva che questa notazione sul proprio destino amoroso è posta in evidenza dal poeta con "l'assonnante spezzatura ritmica del decasillabo alcaico, quasi voglia spegnere quella pausa della clausola spondaica il grido appassionato dell'attacco dattilico del verso". Lo scoppio della folgore, immagine in sé sublime, rimanda a degli echi omerici (Il IV 275-276 e XIII 795-796). Nei versi si accavallano suoni, saette, sibili di vento, echi che rimbombano e straripano. E poi un Eros che arde, che dissecca, che sfinisce, che non si spegne mai, un lampo impetuoso, capace di esercitare tutta la forza che ha in cuore, in maniera totalizzante perché è tenebroso e fosco.

mercoledì 27 gennaio 2010

Immagini dell'aridità

Sin da Esiodo molti poeti hanno rappresentato situazioni e paesaggi dove faceva da padrone la canicola estrema. L'aridità è in scena nei testi che verranno presentati: un'aridità che sfianca, il cui unico rimedio è il bere, un'arsura estiva che provoca sete e suggerisce l'immagine potente del vino che bagna i polmoni rinsecchiti dal caldo. Tutto questo comporta la descrizione di un paesaggi rinsecchito ove dominano note paesistiche che tendono a sottolineare l'arsura: interessante la presenza della cicala, che ci indica "sonoramente" la presenza del caldo, che sala dalla terra e la spacca. Oppure l'aridità può metafora potentissima di uno stato interiore, descrizione della propria anima, da contrapporre alla feconda vivacità di un altro universo.


ἦμος δὲ σκόλυμός τ᾽ ἀνθεῖ καὶ ἠχέτα τέττιξ

δενδρέῳ ἐφεζόμενος λιγυρὴν καταχεύετ᾽ ἀοιδὴν

πυκνὸν ὑπὸ πτερύγων, θέρεος καματώδεος ὥρῃ,

τῆμος πιόταταί τ᾽ αἶγες καὶ οἶνος ἄριστος,

μαχλόταται δὲ γυναῖκες, ἀφαυρότατοι δέ τοι ἄνδρες

εἰσίν, ἐπεὶ κεφαλὴν καὶ γούνατα Σείριος ἄζει,

αὐαλέος δέ τε χρὼς ὑπὸ καύματος: ἀλλὰ τότ᾽ ἤδη

εἴη πετραίη τε σκιὴ καὶ βίβλινος οἶνος,



Quando il cardo fiorisce e la cicala sonora

sull'albero spande l'acuto canto

continuo sotto le ali, nella faticosa stagione estiva

allora più grosse sono le capre e migliore è il vino

più ardenti le donne, più fiacchi gli uomini

poiché Sirio scotta la testa e le ginocchia

e la pelle è secca per la calura,

allora è dolce avere una roccia e vino di Biblo.




Il tema passa, apparentemente, quasi invariato ad Alceo. che lo imita fino a riprendere parole intere ed espressioni: le stesse espressioni, che indicano la calura estrema. Ma il frammento di Alceo ha una sua nota inconfondibile di originalità , le parole sono identiche, ma il tono e il vigore sono diversi. Lo stile spezzato, quasi asintattico, in cui procedono le espressioni esiodee: ciascuna di esse è un'immagine a sé, un'immagine di sensuale violenza e sensuale potenza. Il vino, come ci si potrà immaginare, diviene un'inevitabile rifugio. Più descrittivo, invece è Esiodo.

τέγγε πλεύμονας οἴνῳ, τὸ γὰρ ἄστρον περιτέλλεται,
ἀ δ' ὤρα χαλέπα, πάντα δὲ δίψαις' ὐπὰ καύματος,
ἄχει δ' ἐκ πετάλων ἄδεα τέττιξ ...
ἄνθει δὲ σκόλυμος, νῦν δὲ γύναικες μιαρώταται
λέπτοι δ' ἄνδρες, ἐπεὶ < > κεφάλαν καὶ γόνα Σείριος
ἄσδει

Bagna col vino i polmoni, quando l'astro compie il suo giro
la stagione è pesante, tutto ha sete per l'arsura
dalle fronde canta dolcemente la cicala,
fiorisce il cardo, ed è proprio ora che le donne sono molto ardenti
e gli uomini debolissimi, poiché Sirio dissecca dalla testa alle
ginocchia.

L'incipit potentissimo di questo frammento in antichità fu un motivo di diatriba scientifica, Platone, addotto da questo passo, scrisse che le bevande defluiscono dai polmoni(Tim 70c., 91a.) e venne ripreso dal medico Eristrato, ciò fu notato da Gellio nelle Noctes Atticae (17 11 1). ἄστρον indica la canicola (la stella Sirio, la più luminosa della costellazione del cane, che segna il periodo di maggior caldo estivo) Loeb et alii (diversamente da quanto credeva il Page). Il verbo περιτέλλεται è riferito (cfr Arato) a delle costellazioni e può indicare il perenne ritorno delle stagioni e degli anni come in Omero, Sofocle e Aristofane. Il poeta poi cita le cicale, e come non si può ricordare Platone (Fedro 259c.) che le definiva nunzie alle muse dei canti degli uomini e nunzie agli uomini dei canti delle Muse. Il verso, tuttavia è mutilo (riportiamo lo schema ritmico: ‿ ‿ ­­_ ‿ X) Come ammettono alcuni editori (l'intuizione è del Bergk) il testo subito dopo τέττιξ continuava con il frammento citato da Demetrio (π. ἑρμην. 142 [p. 33 Raderm]= fr. 347 b L.-P.) e in parte corrotto: πτερύγων δ' ὔπα / κακχέει λιγύραν ἀοίδαν, ὄπποτα φλόγιον † καθέταν ἐπιπλάμενον † καταυδείν. Il Willamowitz, seguito da Diehl e da Voight, l'ha attribuito a Saffo. Il fatto che il verso sia preso da Demetrio, che tra spesse volte i suoi esempi da Saffo dovrebbe dar ragione al Willamowitz, ma è anche difficile non cedere alla supposizione della paternità alcaica. La citazione non è messa a testo, poiché si segue l'edizione di Voight (347 V.) per una contestualizzazione maggiore del frammento qui citato si Rimanda all'edizione di Voight di Saffo (fr. 101 A). La presenza del cardo, fiore ispido e secco, ben presente nelle terre di Grecia, portò Plinio il vecchio ad associarlo alla vogliosità delle donne per gli uomini deboli la convinzione delle doti afrodisiache del cardo (Nat. hist. 22 86). λέπτοι δ' ἄνδρες l'immagine è molto più vivida di quella di Esiodo, λεπτός in Omero stava ad indicare il grano spoglio, qui sottile e fine, detto del corpo e dei suoi arti.

In ambito latino, alcune suggestioni di questo genere ci giungono dai bellissimi versi della mai ben ricordata seconda Ecloga (8-13):

nunc etiam pecudes umbras et frigora captant,
nunc virides etiam occultant spineta lacertos,
Thestylis et rapido fessis messoribus aestu 10
alia serpyllumque herbas contundit olentis.
at mecum raucis, tua dum vestigia lustro,
sole sub ardenti resonant arbusta cicadis.

Sono ben presenti le immagini dell'aridità, ma un'aridità parziale, se non solo illusoria. Tuttavia Virgilio riesce a tratteggiare molto bene il clima afoso di un pomeriggio estivo nel Locus amoenus: gli armenti riposano in luoghi verdeggianti all'ombra, le lucertole se ne stanno ben nascoste, lucertole, che sono animali tipici di climi caldi e mediterranei, il roveto spineta, tende così ad acuire l'inospitale e pungente senso di calore di pomeriggi d'estate e il capo verde dell'animale è quasi in antitesi con il colore del roveto. Nel calore estivo vi sono anche dei lavoratori, dei mietitori, pare di vederli mentre lavorano tra i campi dorati: il verso si fa così mosso quasi a rappresentare l'azione Testili, che pesta l'aglio e il sermollino, erbe molto fragranti, per i mietitori atterriti dal calo, dalla canicola, che è "rapido": veloce, opprimente, rovente. L'azione si esplica in due versi e il soggetto Thestylis, ha il suo verbo e i suoi oggetti al verso successivo, in forte stacco. E non petevano mancare le cicale, quasi un luogo fisso nella rappresentazione di tali situazioni, le cicale, fanno da sottofondo musicale all'inquietudine amorosa di Coridone per il bellissimo Alessi. Il suono rovente delle cicale, tra gli arbusti quasi è una rappresentazione esterna dell'animo infuocato dalla passione del pastore, è, quasi, si licet, anche questa una rappresentazione del paesaggio dell'anima, formula fortunatissima del grande Bruno Snell. Questa clima infernale e questa passione bruciante fanno quasi venire in mente un'opera ben più tarda, siamo agli sgoccioli dell'ottocento: La Lupa di Verga (si cita qui il testo completo):

Era alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna - e pure non era più giovane - era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano.
Al villaggio la chiamavano la Lupa perché non era sazia giammai - di nulla. Le donne si facevano la croce quando la vedevano passare, sola come una cagnaccia, con quell'andare randagio e sospettoso della lupa affamata; ella si spolpava i loro figliuoli e i loro mariti in un batter d'occhio, con le sue labbra rosse, e se li tirava dietro alla gonnella solamente a guardarli con quegli occhi da satanasso, fossero stati davanti all'altare di Santa Agrippina. Per fortuna la Lupa non veniva mai in chiesa, né a Pasqua, né a Natale, né per ascoltar messa, né per confessarsi. - Padre Angiolino di Santa Maria di Gesù, un vero servo di Dio, aveva persa l'anima per lei.
Maricchia, poveretta, buona e brava ragazza, piangeva di nascosto, perché era figlia della Lupa, e nessuno l'avrebbe tolta in moglie, sebbene ci avesse la sua bella roba nel cassettone, e la sua buona terra al sole, come ogni altra ragazza del villaggio.
Una volta la Lupa si innamorò di un bel giovane che era tornato da soldato, e mieteva il fieno con lei nelle chiuse del notaro; ma proprio quello che si dice innamorarsi, sentirsene ardere le carni sotto al fustagno del corpetto, e provare, fissandolo negli occhi, la sete che si ha nelle ore calde di giugno, in fondo alla pianura. Ma lui seguitava a mietere tranquillamente, col naso sui manipoli, e le diceva: - O che avete, gnà Pina? - Nei campi immensi, dove scoppiettava soltanto il volo dei grilli, quando il sole batteva a piombo, la Lupa, affastellava manipoli su manipoli, e covoni su covoni, senza stancarsi mai, senza rizzarsi un momento sulla vita, senza accostare le labbra al fiasco, pur di stare sempre alle calcagna di Nanni, che mieteva e mieteva, e le domandava di quando in quando: - Che volete, gnà Pina? -
Una sera ella glielo disse, mentre gli uomini sonnecchiavano nell'aia, stanchi dalla lunga giornata, ed i cani uggiolavano per la vasta campagna nera: - Te voglio! Te che sei bello come il sole, e dolce come il miele. Voglio te!
- Ed io invece voglio vostra figlia, che è zitella - rispose Nanni ridendo.
La Lupa si cacciò le mani nei capelli, grattandosi le tempie senza dir parola, e se ne andò; né più comparve nell'aia. Ma in ottobre rivide Nanni, al tempo che cavavano l'olio, perché egli lavorava accanto alla sua casa, e lo scricchiolio del torchio non la faceva dormire tutta notte.
- Prendi il sacco delle olive, - disse alla figliuola, - e vieni -.
Nanni spingeva con la pala le olive sotto la macina, e gridava - Ohi! - alla mula perché non si arrestasse. - La vuoi mia figlia Maricchia? - gli domandò la gnà Pina. - Cosa gli date a vostra figlia Maricchia? - rispose Nanni. - Essa ha la roba di suo padre, e dippiù io le do la mia casa; a me mi basterà che mi lasciate un cantuccio nella cucina, per stendervi un po' di pagliericcio. - Se è così se ne può parlare a Natale - disse Nanni. Nanni era tutto unto e sudicio dell'olio e delle olive messe a fermentare, e Maricchia non lo voleva a nessun patto; ma sua madre l'afferrò pe' capelli, davanti al focolare, e le disse co' denti stretti: - Se non lo pigli, ti ammazzo! -
La Lupa era quasi malata, e la gente andava dicendo che il diavolo quando invecchia si fa eremita. Non andava più di qua e di là; non si metteva più sull'uscio, con quegli occhi da spiritata. Suo genero, quando ella glieli piantava in faccia, quegli occhi, si metteva a ridere, e cavava fuori l'abitino della Madonna per segnarsi. Maricchia stava in casa ad allattare i figliuoli, e sua madre andava nei campi, a lavorare cogli uomini, proprio come un uomo, a sarchiare, a zappare, a governare le bestie, a potare le viti, fosse stato greco e levante di gennaio, oppure scirocco di agosto, allorquando i muli lasciavano cader la testa penzoloni, e gli uomini dormivano bocconi a ridosso del muro a tramontana. In quell'ora fra vespero e nona, in cui non ne va in volta femmina buona, la gnà Pina era la sola anima viva che si vedesse errare per la campagna, sui sassi infuocati delle viottole, fra le stoppie riarse dei campi immensi, che si perdevano nell'afa, lontan lontano, verso l'Etna nebbioso, dove il cielo si aggravava sull'orizzonte.
- Svegliati! - disse la Lupa a Nanni che dormiva nel fosso, accanto alla siepe polverosa, col capo fra le braccia. - Svegliati, ché ti ho portato il vino per rinfrescarti la gola -.
Nanni spalancò gli occhi imbambolati, tra veglia e sonno, trovandosela dinanzi ritta, pallida, col petto prepotente, e gli occhi neri come il carbone, e stese brancolando le mani.
- No! non ne va in volta femmina buona nell'ora fra vespero e nona! - singhiozzava Nanni, ricacciando la faccia contro l'erba secca del fossato, in fondo in fondo, colle unghie nei capelli. - Andatevene! andatevene! non ci venite più nell'aia! -
Ella se ne andava infatti, la Lupa, riannodando le trecce superbe, guardando fisso dinanzi ai suoi passi nelle stoppie calde, cogli occhi neri come il carbone.
Ma nell'aia ci tornò delle altre volte, e Nanni non le disse nulla. Quando tardava a venire anzi, nell'ora fra vespero e nona, egli andava ad aspettarla in cima alla viottola bianca e deserta, col sudore sulla fronte - e dopo si cacciava le mani nei capelli, e le ripeteva ogni volta: - Andatevene! andatevene! Non ci tornate più nell'aia! -
Maricchia piangeva notte e giorno, e alla madre le piantava in faccia gli occhi ardenti di lagrime e di gelosia, come una lupacchiotta anch'essa, allorché la vedeva tornare da' campi pallida e muta ogni volta. - Scellerata! - le diceva. - Mamma scellerata!
- Taci!
- Ladra! ladra!
- Taci!
- Andrò dal brigadiere, andrò!
- Vacci!
E ci andò davvero, coi figli in collo, senza temere di nulla, e senza versare una lagrima, come una pazza, perché adesso l'amava anche lei quel marito che le avevano dato per forza, unto e sudicio delle olive messe a fermentare.
Il brigadiere fece chiamare Nanni; lo minacciò sin della galera e della forca. Nanni si diede a singhiozzare ed a strapparsi i capelli; non negò nulla, non tentò di scolparsi. - È la tentazione! - diceva; - è la tentazione dell'inferno! - Si buttò ai piedi del brigadiere supplicandolo di mandarlo in galera.
- Per carità, signor brigadiere, levatemi da questo inferno! Fatemi ammazzare, mandatemi in prigione! non me la lasciate veder più, mai! mai!
- No! - rispose invece la Lupa al brigadiere - Io mi son riserbato un cantuccio della cucina per dormirvi, quando gli ho data la mia casa in dote. La casa è mia; non voglio andarmene.
Poco dopo, Nanni s'ebbe nel petto un calcio dal mulo, e fu per morire; ma il parroco ricusò di portargli il Signore se la Lupa non usciva di casa. La Lupa se ne andò, e suo genero allora si poté preparare ad andarsene anche lui da buon cristiano; si confessò e comunicò con tali segni di pentimento e di contrizione che tutti i vicini e i curiosi piangevano davanti al letto del moribondo. E meglio sarebbe stato per lui che fosse morto in quel giorno, prima che il diavolo tornasse a tentarlo e a ficcarglisi nell'anima e nel corpo quando fu guarito. - Lasciatemi stare! - diceva alla Lupa - Per carità, lasciatemi in pace! Io ho visto la morte cogli occhi! La povera Maricchia non fa che disperarsi. Ora tutto il paese lo sa! Quando non vi vedo è meglio per voi e per me... -
Ed avrebbe voluto strapparsi gli occhi per non vedere quelli della Lupa, che quando gli si ficcavano ne' suoi gli facevano perdere l'anima ed il corpo. Non sapeva più che fare per svincolarsi dall'incantesimo. Pagò delle messe alle anime del Purgatorio, e andò a chiedere aiuto al parroco e al brigadiere. A Pasqua andò a confessarsi, e fece pubblicamente sei palmi di lingua a strasciconi sui ciottoli del sacrato innanzi alla chiesa, in penitenza - e poi, come la Lupa tornava a tentarlo:
- Sentite! - le disse, - non ci venite più nell'aia, perché se tornate a cercarmi, com'è vero Iddio, vi ammazzo!
- Ammazzami, - rispose la Lupa, - ché non me ne importa; ma senza di te non voglio starci -.
Ei come la scorse da lontano, in mezzo a' seminati verdi, lasciò di zappare la vigna, e andò a staccare la scure dall'olmo. La Lupa lo vide venire, pallido e stralunato, colla scure che luccicava al sole, e non si arretrò di un sol passo, non chinò gli occhi, seguitò ad andargli incontro, con le mani piene di manipoli di papaveri rossi, e mangiandoselo con gli occhi neri. - Ah! malanno all'anima vostra! - balbettò Nanni. (da "Vita dei campi")

Per restare in ambito italiano, come non citare un poeta in cui l'aridità è un motivo portante: Montale, qui ci limiteremo a riportare alcuni testi significativi dagli "Ossi di seppia", non ritenendoci in grado di affrontare l'analisi puntuale di un autore così importante e ammirevole.

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d'orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe dei suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

Portami il girasole ch'io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l'ansietà del suo volto giallino.

Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.

Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.


Spesso il male di vivere ho incontrato
era il rivo strozzato che gorgoglia
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.


Gloria del disteso mezzogiorno
quand'ombra non rendono gli alberi,
e piú e piú si mostrano d'attorno
per troppa luce, le parvenze, falbe.

Il sole, in alto, - e un secco greto.
Il mio giorno non è dunque passato:
l'ora piú bella è di là dal muretto
che rinchiude in un occaso scialbato.

L'arsura, in giro; un martin pescatore
volteggia s'una reliquia di vita.
La buona pioggia è di là dallo squallore,
ma in attendere è gioia piú compita.

MEDITERRANEO (Ossi di seppia, Montale)

1
A vortice s'abbatte
sul mio capo reclinato
un suono d'agri lazzi.
Scotta la terra percorsa
da sghembe ombre di pinastri,
e al mare là in fondo fa velo
più che i rami, allo sguardo, l'afa che a tratti erompe
dal suolo che si avvena.
Quando più sordo o meno il ribollio dell'acque
che s'ingorgano
accanto a lunghe secche mi raggiunge:
o è un bombo talvolta ed un ripiovere
di schiume sulle rocce.
Come rialzo il viso, ecco cessare
i ragli sul mio capo; e scoccare
verso le strepeanti acque,
frecciate biancazzurre, due ghiandaie.

2
Antico, sono ubriacato dalla voce
ch'esce dalle tue bocche quando si schiudono
come verdi campane e si ributtano
indietro e si disciolgono.
La casa delle mie estati lontane
t'era accanto, lo sai,
là nel paese dove il sole cuoce
e annuvolano l'aria le zanzare.
Come allora oggi in tua presenza impietro,
mare, ma non più degno
mi credo del solenne ammonimento
del tuo respiro. Tu m'hai detto primo
che il piccino fermento
del mio cuore non era che un momento
del tuo; che mi era in fondo
la tua legge rischiosa: esser vasto e diverso
e insieme fisso:
e svuotarmi così d'ogni lordura
come tu fai che sbatti sulle sponde
tra sugheri alghe asterie
le inutili macerie del tuo abisso.

3
Scendendo qualche volta
gli aridi greppi
ormai divisi dall'umoroso
Autunno che li gonfiava,
non m'era più in cuore la ruota
delle stagioni e il gocciare
del tempo inesorabile;
ma bene il presentimento
di te m'empiva l'anima,
sorpreso nell'ansimare
dell'aria, prima immota,
sulle rocce che orlavano il cammino.
Or, m'avvisavo, la pietra
voleva strapparsi, protesa
a un invisibile abbraccio;
la dura materia sentiva
il prossimo gorgo, e pulsava;
e i ciuffi delle avide canne
dicevano all'acque nascoste,
scrollando, un assentimento.
Tu vastità riscattavi
anche il patire dei sassi:
pel tuo tripudio era giusta
l'immobilità dei finiti.
Chinavo tra le petraie,
giungevano buffi salmastri
al cuore; era la tesa
del mare,un giuoco di anella.
Con questa gioia precipita
dal chiuso vallotto alla spiaggia
la spersa pavoncella.

4
Ho sostato talvolta nelle grotte
che t'assecondano, vaste
o anguste, ombrose e amare.
Guardati dal fondo gli sbocchi
segnavano architetture
possenti campite di cielo.
Sorgevano dal tuo petto
rombante aerei templi,
guglie scoccanti luci:
una città di vetro dentro l'azzurro netto
via via si discopriva da ogni caduco velo
e il suo rombo non era che un susurro.
Nasceva dal fiotto la patria sognata.
Dal subbuglio emergeva l'evidenza.
L'esiliato rientrava nel paese incorrotto.
Così, padre, dal tuo disfrenamento
si afferma, chi ti guardi, una legge severa.
Ed è vano sfuggirla: mi condanna
s'io lo tento anche un ciottolo
róso sul mio cammino,
impietrato soffrire senza nome,
o l'informe rottame
che gittò fuor del corso la fiumara
del vivere in un fitto di ramure e di strame.
Nel destino che si prepara
c'è forse per me sosta,
niun'altra minaccia.
Questo ripete il flutto in sua furia incomposta,
e questo ridice il filo della bonaccia.

5
Giunge a volte, repente,
un'ora che il tuo cuore disumano
ci spaura e dal nostro si divide.
Dalla mia la tua musica sconcorda,
allora, ed è nemico ogni tuo moto.
In me ripiego, vuoto
di forze, la tua voce pare sorda.
M'affisso nel pietrisco
che verso te digrada
fino alla ripa acclive che ti sovrasta,
franosa, gialla, solcata
da strosce d'acqua piovana.
Mia vita è questo secco pendio,
mezzo non fine, strada aperta a sbocchi
di rigagnoli, lento franamento.
È dessa, ancora, questa pianta
che nasce dalla devastazione
e in faccia ha i colpi del mare ed è sospesa
fra erratiche forze di venti.
Questo pezzo di suolo non erbato
s'è spaccato perché nascesse una margherita.
In lei tìtubo al mare che mi offende,
manca ancora il silenzio nella mia vita.
Guardo la terra che scintilla,
l'aria è tanto serena che s'oscura.
E questa che in me cresce
è forse la rancura
che ogni figliuolo, mare, ha per il padre.

6
Noi non sappiamo quale sortiremo
domani, oscuro o lieto;
forse il nostro cammino
a non tócche radure ci addurrà
dove mormori eterna l'acqua di giovinezza;
o sarà forse un discendere
fino al vallo estremo,
nel buio, perso il ricordo del mattino.
Ancora terre straniere
forse ci accoglieranno: smarriremo
la memoria del sole, dalla mente
ci cadrà il tintinnare delle rime.
Oh la favola onde s'esprime
la nostra vita, repente
si cangerà nella cupa storia che non si racconta!
Pur di una cosa ci affidi,
padre, e questa è: che un poco del tuo dono
sia passato per sempre nelle sillabe
che rechiamo con noi, api ronzanti.
Lontani andremo e serberemo un'eco
della tua voce, come si ricorda
del sole l'erba grigia
nelle corti scurite, tra le case.
E un giorno queste parole senza rumore
che teco educammo nutrite
di stanchezze e di silenzi,
parranno a un fraterno cuore
sapide di sale greco.

7
Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale
siccome i ciottoli che tu volvi,
mangiati dalla salsedine;
scheggia fuori del tempo, testimone
di una volontà fredda che non passa.
Altro fui: uomo intento che riguarda
in sé, in altrui, il bollore
della vita fugace - uomo che tarda
all'atto, che nessuno, poi, distrugge.
Volli cercare il male
che tarla il mondo, la piccola stortura
d'una leva che arresta
l'ordegno universale; e tutti vidi
gli eventi del minuto
come pronti a disgiungersi in un crollo.
Seguìto il solco d'un sentiero m'ebbi
l'opposto in cuore, col suo invito; e forse
m'occorreva il coltello che recide,
la mente che decide e si determina.
Altri libri occorrevano
a me, non la tua pagina rombante.
Ma nulla so rimpiangere: tu sciogli
ancora i groppi interni col tuo canto.
Il tuo delirio sale agli astri ormai.


8
Potessi almeno costringere
in questo mio ritmo stento
qualche poco del tuo vaneggiamento;
dato mi fosse accordare
alle tue voci il mio balbo parlare: -
io che sognava rapirti
le salmastre parole
in cui natura ed arte si confondono,
per gridar meglio la mia malinconia
di fanciullo invecchiato che non doveva pensare.
Ed invece non ho che le lettere fruste
dei dizionari, e l'oscura
voce che amore detta s'affioca,
si fa lamentosa letteratura.
Non ho che queste parole
che come donne pubblicate
s'offrono a chi le richiede;
non ho che queste frasi stancate
che potranno rubarmi anche domani
gli studenti canaglie in versi veri.
Ed il tuo rombo cresce, e si dilata
azzurra l'ombra nuova.
M'abbandonano a prova i miei pensieri.
Sensi non ho; né senso. Non ho limite.

9
Dissipa tu se lo vuoi
questa debole vita che si lagna,
come la spugna il frego
effimero di una lavagna.
M'attendo di ritornare nel tuo circolo,
s'adempia lo sbandato mio passare.
La mia venuta era testimonianza
di un ordine che in viaggio mi scordai,
giurano fede queste mie parole
a un evento impossibile, e lo ignorano.
Ma sempre che traudii
la tua dolce risacca su le prode
sbigottimento mi prese
quale d'uno scemato di memoria
quando si risovviene del suo paese.
Presa la mia lezione
più che dalla tua gloria
aperta, dall'ansare
che quasi non dà suono
di qualche tuo meriggio desolato,
a te mi rendo in umiltà. Non sono
che favilla d'un tirso. Bene lo so: bruciare,
questo, non altro, è il mio significato.